Disastro ecologico, crisi economica, migrazioni, violenza sociale… Furore potrebbe sembrare tristemente di attualità se il libro di John Steinbeck non fosse soprattutto un capolavoro senza tempo ricco di un’umanità che è più fragile che mai
America anni ’30. L’esodo della famiglia Joad dalla terra di adozione devastata dalla “tempesta di sabbia” e ambita dalle grandi società bancarie e dall’industrializzazione dei raccolti, spendendo fino all’ultimo “centesimo” per migrare verso una terra promessa, che rivelerà solo sfruttamento umano e frustrazioni economiche. John Steinbeck lavora su una materia che fa emergere speranza e miseria, generosità e meschinità, amore e stanchezza…
Cinque mesi di scrittura, preceduti da tentativi falliti, mentre nella mente del romanziere si incrociano le varie traiettorie della disperazione di migliaia di famiglie di migranti venute a tentare la fortuna in California, devastata da inondazioni e carestie tra febbraio e marzo 1938.
«Ciò che ogni lettore trarrà da The Grapes of Wrath rifletterà la propria profondità o superficialità», scrive Steinbeck al suo editore Pascal Covici nel gennaio 1939. Pochi mesi dopo la pubblicazione (aprile 1939), il 6 maggio 1940, John Steinbeck riceve il Premio Pulitzer per il suo romanzo, la fredda e intransigente analisi di ciò che era accaduto dieci anni prima, la crisi del 1929, nota come La Grande Depressione. Il crollo dell’economia americana, alla fine dell’estate del 1929, e le conseguenze dirette per le persone, i più fragili e indigenti, sono superbamente descritti da Steinbeck nell’improbabile ricerca della famiglia Joad. Le frequenti e violente tempeste, poi unite ad un’implacabile siccità, che si abbatte sul Middle West, distrugge i raccolti della famiglia Joad. La ferocia delle banche che si impadroniscono di tutte le case dei contadini divenuti insolventi, spinge i Joad a lasciare l’Oklahoma, credendo di raggiungere il paradiso, ovvero il californiano “El Dorado”. La strada è difficile e disseminata di dolorose insidie, su questa Route 66, all’epoca priva di qualsiasi romanticismo. Per Tom Joad, il capofamiglia, il cerchio si completa sotto forma di una discesa agli inferi, poiché, uscito di prigione prima di lasciare l’Oklahoma, vi farà ritorno in California, per via delle sue scelte e dei suoi impegni.
Come ha scritto l’economista J.K. Galbraith: «La gente moriva di fame nel 1930, 1931 e 1932», ma quando il “Premio Nobel per la Letteratura” è assegnato a John Steinbeck nel 1962, il rispettabile New York Times, in modo inelegante, feroce e ingiusto, si stupisce che questo premio sia stato assegnato a un autore «il cui talento limitato è, nei suoi migliori libri, soffocato da una filosofia da bazar».
Nel 1940, un anno dopo la pubblicazione di The Grapes of Wrath e nell’anno in cui vinse il Premio Pulitzer, Darryl F. Zanuck produce una versione cinematografica per la Twentieth Century Fox che in breve tempo si afferma come un classico, spesso inserito in varie classifiche tra i dieci migliori film americani di tutti i tempi. Considerando le controversie sorte intorno al libro, che i militanti conservatori denunciano come osceno e sovversivo (arrivando persino ad estrometterlo dalle biblioteche e a bruciarne le copie pubblicamente), è sorprendente che il film venga realizzato e, soprattutto, fedele al romanzo. La destra americana denuncia il progetto come antiamericano e minaccia di boicottarlo, mentre i liberali temono che Zanuck si indotto ad accantonarlo o a smorzarlo. Ma Zanuck coinvolge Steinbeck in prima persona e garantisce al romanziere, sospettoso, che la produzione sarebbe rimasta fedele al romanzo,
Lo sceneggiatore Nunnally Johnson utilizza gran parte del dialogo di Steinbeck, ma riesce comunque ad attenuare la rabbia del romanzo contro il trattamento disumano dei lavoratori agricoli migranti. Johnson trasferisce l’episodio del campo di internamento del ranch Hooper e l’omicidio di Casy in modo che si svolgano davanti al campo governativo, dove finisce il film, dando così alla vicenda una conclusione più ottimista, mentre i Joad e altre famiglie lasciano il campo con rinnovata fiducia nella loro capacità di trovare lavoro. Mancano le inondazioni, la fame e la miseria con cui finisce il libro. Invece, lo stesso Zanuck prende due righe dalla fine del capitolo 20 e le elabora in modo che Ma Joad proclami, nell’ultimo discorso del film, “Siamo vivi. Siamo il popolo, la gente, che sopravvive a tutto. Nessuno può distruggerci. Nessuno può fermarci. Noi andiamo sempre avanti”.
Nonostante queste modifiche, il film conserva gran parte dell’ira di Steinbeck contro la crudeltà, l’avidità e lo sfruttamento, tanto che Zanuck mantiene un’autonomia senza precedenti, rifiutandosi di anticipare la sceneggiatura ai giornalisti e usando il titolo contraffatto Route 66 per nascondere cosa si sta realmente producendo. Nonostante gli attacchi dei conservatori, che denunciano l’opera di Steinbeck come propaganda comunista, gran parte della critica elogia la qualità, l’integrità e il crudo realismo del film. Sotto la direzione di John Ford (in fondo un “falco” del cinema statunitense, che firma uno dei suoi massimi capolavori di regista) il fotografo Gregg Toland cattura l’aspetto aggressivo della Depressione – come descritta negli scatti fotografici di Dorothea Lange, Walker Evans, Horace Bristol e altri – con la sua fotografia in bianco e nero dall’aspetto da cinegiornale. Il cast, superlativo, riesce a rendere genuina questa famiglia che sta passando momenti terribili. Solo Henry Fonda, che interpreta Tom Joad, è una star, e riesce a tratteggiare con grande realismo la tragica figura di un sottoproletario.
John Ford si aggiudica l’Oscar come miglior regista e Jane Darwell quale migliore attrice non protagonista. Fonda viene nominato come miglior attore, ma è superato dalla performance – molto meno memorabile – di James Stewart nella sophisticated comedy Scandalo a Filadelfia; mentre il film si vede superato dal thriller romantico di Alfred Hitchcock, Rebecca, la prima moglie.
Il romanzo viene ripreso in The Grapes of Wrath (1991), diretto da Kirk Browning per la serie TV American Playhouse, dall’adattamento teatrale di Frank Galati dall’opera di Steinbeck, con Gary Sinise nel ruolo di Joad.
Forte di un Tony Award nel 1990 quale migliore opera teatrale, questa edizione di due ore e mezza per il piccolo schermo è molto più fedele al romanzo del film di John Ford.
Il film si conclude quando Tom esce dalla vicenda, lasciando Ma a fornire una nota di speranza e di ottimismo. Al contrario, come accade nel romanzo, questa versione continua con la sorella di Tom, che partorisce un bambino morto e poi, ancora gonfia di latte, offre il suo seno a un uomo affamato in un fienile abbandonato: un’immagine memorabile.
Presentando la trasmissione, Elaine Steinbeck, la vedova del romanziere, dichiara: «Posso dire dal mio cuore che John avrebbe adorato questa performance».
Per gli appassionati, l’annuncio di Steven Spielberg di voler realizzare una nuova versione di Furore è indubbiamente entusiasmante. Anche perché Daniel Day Lewis dovrebbe interpretare il protagonista, Joad. La realizzazione del progetto è frenata da alcune traversie legate ai diritti del romanzo. Da decenni gli eredi di Steinbeck portano avanti una battaglia legale per la detenzione di tali diritti, che ha bloccato numerosi altri adattamenti (già Ron Howard avrebbe voluto dirigere una nuova versione de La valle dell’Eden).
Massimo Moscati
JOHN STEINBECK AL CINEMA
Book Time/La Vita Felice
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