Il disprezzo, uscito nel 1954, è l’opera con cui Alberto Moravia inaugura la fase più matura della sua più che prolifica carriera. Dopo una prima fase di stampo prettamente esistenzialista  e di ascendenza sartriana (di cui il risultato migliore è senz’altro il romanzo d’esordio, Gli indifferenti), e un secondo tempo dove risulta preponderante il bisogno neorealista di raccontare la realtà del dopoguerra, dal Disprezzo in poi Moravia cerca – trovandolo – un equilibrio tra queste due tensioni: da un lato l’insistita introspezione psicologica per raccontare la crisi della borghesia, dall’altro la realtà oggettiva e materiale come imprescindibile punto di partenza di ogni discorso. 

All’apparenza meno eclatante dell’acclamatissimo Il conformista e meno celebre del successivo La noiaIl disprezzo è in realtà uno dei momenti più felici del complesso universo ideologico e stilistico del grande scrittore. Il tipico realismo crudo, spoglio e disadorno di Moravia, non ha né gli inevitabili cedimenti estetici e tardo decadenti degli esordi né gli intenti ideologici della fase “neorealista”, ma è tutto funzionale al puro e semplice svolgersi della storia. Equidistante tanto dal compiacimento lirico quanto dal discorso politico, il romanzo riesce così a mettere in scena una spietata analisi quasi clinica, quasi chirurgica, dei mali esistenziali della borghesia. E, per quanto la storia sia spudoratamente autobiografica (il cinico produttore che corteggia apertamente la compagna dello sceneggiatore, rimanda alla crisi di coppia tra Moravia ed Elsa Morante, e alla relazione di quest’ultima con Luchino Visconti), l’impianto narrativo resta del tutto lucido e distaccato. E per questo dolorosissimo.
  
La trama, si diceva, è autobiografica. Si racconta del giovane scrittore Riccardo Molteni, che per accontentare la moglie Emilia e comperare una nuova casa, accetta il remunerativo lavoro di sceneggiatore con il produttore di successo Battista, il quale gli commissiona la riduzione cinematografica de L’Odissea. Ma a poco a poco, quello che è nato come un espediente per accontentarla, agli occhi di Emilia fa emergere lo stanco servilismo di Riccardo, che benché si accorga del serrato corteggiamento del produttore verso sua moglie, non fa nulla per impedirlo. Un’inerzia che porta la donna a disprezzare il marito, ma è anche Riccardo, imprigionato nelle logiche mortificanti del cinema commerciale e non più capace di creare opere autentiche e di valore, a disprezzare se stesso e il mondo. Ma è un disprezzo che non genera reazione, imputridisce nell’immobilismo malato della borghesia impedendo a ciascun personaggio di ritrovare se stesso, la propria dimensione e la propria felicità, condannandoli viceversa ad allontanarsi, a una solitudine involuta e del tutto priva di senso.  
Mai come ne Il disprezzo, l’idea tipicamente moraviana sulla sistematica distruzione della felicità cui è condannata (e si condanna) la borghesia è tanto feroce e spietata.

Nove anni dopo l’uscita del romanzo, nel 1963, arriva la versione cinematografica del padre della Nouvelle Vague, il grande Jean-Luc Godard, con un cast a dir poco d’eccezione: Michel Piccoli nella parte dello scrittore e sceneggiatore (Paolo anziché Riccardo nella riduzione), Jack Palance in quella del cinico produttore e niente meno che Fritz Lang nei panni del regista, e quindi di se stesso, dell’Odissea. Ma soprattutto, con la divina Brigitte Bardot, qui in un particolare stato di grazia, nel ruolo di Emilia. 
Oggi il film, nonostante la firma di Godard e la presenza della Bardot e di attori così importanti, è ricordato soprattutto per la sciagurata vicenda della censura, che rese la pellicola una delle più tagliate della storia del cinema. I litigi tra Godard e il produttore Carlo Ponti, iniziati già in fase di casting, portarono a rimaneggiamenti e stravolgimenti di ogni sorta in fase di montaggio. La censura fece il resto, eliminando tutte le scene di nudo e finendo per dare al pubblico un film di appena 84 minuti a fronte dei 105 voluti da Godard. 

Solo in tempi recenti – nel 2010 – è stato possibile restituire l’opera al suo formato originario, un lungo, lunghissimo oblio che ha fatto sì che il film venisse ingiustamente trascurato, quando in realtà a nostro avviso risulta uno dei più importanti di una filmografia straordinaria come quella di Godard.  
Paradossalmente, il regista francese non amava particolarmente il romanzo di Moravia. Anzi, alla sua uscita, lo aveva addirittura salutato con una sonora stroncatura sulle colonne dei Cahiérs du Cinema, definendolo “romanzo da stazione, pieno di sentimenti fuori moda”. Eppure, in quello che aveva considerato niente altro che un datato romanzetto, col tempo, forse a seguito di una rilettura, riuscì a trovarci qualcosa di così affascinante da decidere di farne un film. Un film che non stravolge il plot, ma il suo equilibrio: la “putredine” borghese che in Moravia è la quintessenza della dinamica narrativa e da essa discende ogni altro aspetto, in Godard quasi scompare, a favore della rappresentazione delle più sottili sfumature psicologiche dell’amore e della riflessione (ossessione godardiana per eccellenza) sul senso dell’arte in generale e del fare cinema in particolare. 
Due elementi che nella pellicola di Godard si sviluppano in relazione agli interpreti. Non che la regia passi in secondo piano o faccia un passo indietro (impossibile, visto che parliamo di Godard), ma è nel rapporto dialettico tra regia e recitazione che risiede il quid del film. 

Per la riflessione su arte e cinema è la stessa presenza di Lang a parlare. Muto o dialogante, statico o in movimento, il genio dell’espressionismo, tra i padri putativi dell’intera storia del cinema, è uno specchio su cui Godard riflette se stesso, la propria estetica e, al tempo stesso, un’icona da rincorrere e interrogare, una sorta di oracolo che fornisce risposte problematiche e contraddittorie. È la sua figura, ieratica e severa, a dare corpo e sostanza alla riflessione metacinematografica, imprescindibile nell’intera filmografia di Godard e decisiva in questo film nello specifico. 
Per l’indagine psicologica dei sentimenti, è invece indispensabile Brigitte Bardot. Gli arcinoti pessimi rapporti tra lei e Godard (“lei non mi interessava e io non interessavo a lei” è il laconico commento con cui il regista ricorderà anni dopo il set diviso con la celebre attrice) non solo non ebbero influenza negativa sulla riuscita del film, ma riuscirono ad esaltare la malattia dell’indifferenza, il senso di disprezzo, la tensione insostenibile, il clima da catastrofe inesorabile e inevitabile che sottendono l’intera storia. La Bardot interpreta Emilia ma è anche, inevitabilmente, se stessa, splendidamente e atrocemente se stessa. Diva, bellissima, disarmante, desiderata dal mondo intero. I nudi – tagliati, accennati, intuiti, espliciti o impliciti – non riguardano solo il personaggio, ma anche (soprattutto?) l’attrice. Quel muro di disprezzo eretto davanti al monumentale Michel Piccoli che si lega inesorabilmente all’idea sotterranea, ovvia e insopportabile, di una bellezza da anteporre sempre e comunque alla bravura, l’estetica che sopravanza e disarciona la competenza, il corpo “usato” per il raggiungimento di obiettivi altrui, sono strutturali alla narrazione, del romanzo e del film, costituiscono una delle anime dell’opera, ma appartengono più a Brigitte che ad Emilia. 
È l’attrice che immedesimandosi nel personaggio restituisce se stessa in maniera problematica. Stanislavskij che si fonde con Brecht. Un dentro e fuori che finisce per essere collante con la dimensione metacinematografica tanto cara a Godard e così importante per questo film. 
Una prova di recitazione a dir poco straordinaria. 
Si scrisse l’indomani della prima: “se della Bardot non dovesse restare che un solo, unico film, questo sarebbe Il Disprezzo”.
Come dargli torto?

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