Italia, 1944. Gianni (Vittorio Gassman), Antonio (Nino Manfredi) e Nicola (Stefano Satta Flores) diventano amici mentre combattono contro i tedeschi. Quando arriva l’ora della liberazione, si apre per loro un nuovo mondo. Ferventi attivisti, pieni di sogni e illusioni, sono pronti per fare la rivoluzione. Ma avranno strade molto diverse…

Sorta di apologia della “commedia italiana”, C’eravamo tanto amati (1974) è prima di tutto una magnifica storia di amicizia e amore, tra l’avvocato Gianni (Vittorio Gassman), il barelliere attivista Antonio (Nino Manfredi) e l’insegnante/giornalista amante del cinema Nicola (Stefano Satta Flores). I tre amici, in seguito diventeranno sodali di Luciana (Stefania Sandrelli), un’aspirante attrice che sarà all’origine del loro disaccordo. Ma non è solo una questione di sentimenti. Se la lotta contro il totalitarismo e la promozione degli ideali rivoluzionari li hanno uniti per un certo periodo, il divario politico e sociale va di pari passo con la loro diversità emotiva. Dei tre amici, solo Antonio è il vero uomo del popolo, l’incarnazione del nuovo proletariato. Nicola è la tipica figura dell’intellettuale tormentato ed egocentrico, incapace di sfamare la famiglia, e che finisce per perdersi in pietosi quiz televisivi. Gianni, l’avvocato, simboleggia l’arricchimento della classe media e sperimenta l’ascesa sociale sposando la figlia di un disonesto promotore immobiliare (Aldo Fabrizi ritrae in modo magistrale un imprenditore senza scrupoli). Gli ideali giovanili si sgretolano, ma al di là di questi singoli casi, Scola dipinge un ritratto suggestivo di trent’anni di storia italiana, dal 1944 al 1974.

Del resto, la “Storia”, con la S maiuscola, è stata un punto di riferimento della commedia italiana matura, quella che, agli albori degli anni Sessanta, si distaccò progressivamente dallo slapstick e dalla commedia di costume con opere come La grande guerra (Mario Monicelli, 1959), Tutti a casa (Luigi Comencini, 1960) o Una vita difficile (Dino Risi, 1961), stabilendo un rapporto dialettico tra umorismo e analisi storica. C’eravamo tanto amati si pone al vertice – e all’epilogo – di questo approccio critico.

Il ritratto di questi tre amici è la raffigurazione di una generazione, di un’epoca. Ma questa volta, l’intreccio tra il particolare e il collettivo, tra il personale e lo storico, si nutre di un terzo attore, il cinema, il cui ruolo, qui, non si limita al semplice omaggio, e che unisce davvero i fili narrativi tra loro, conferendo all’opera complessiva il suo significato e la sua coerenza. Perché se il film di Scola è un’opera sullo scorrere del tempo, è giusto che al Cinema, l’Arte del Tempo se mai ce n’è stata una, trovi la sua giusta collocazione. C’eravamo tanto amati è un omaggio a tre decenni di cinema italiano. Ospite di un cineclub, Nicola è uno dei primi paladini del neorealismo e di Ladri di biciclette che perseguiterà la sua esistenza. Il film è dedicato con reverenza e affetto a Vittorio De Sica, presente con un vero documentario mentre parla agli operai della Fiat Mirafiori: Scola ricrea il clima teso del dopoguerra utilizzando l’emblematico film di De Sica che cristallizza, secondo la sua visione, tutte le paure inerenti a questo travagliato periodo.

Luciana vede le sue speranze di sfondare nel cinema deluse mentre è proprio nei pressi della Fontana di Trevi, sul set de La dolce vita che, per caso, avverrà la riunione tra vecchi amici (Scola ricostruisce, con la benevola approvazione di Fellini e Mastroianni, amichevoli guest star del suo film, il set del mitico capolavoro). Mentre il cinema dell’incomunicabilità di Antonioni viene evocato attraverso la deriva di Elide (Giovanna Ralli), che passa dallo status di borghese ignorante a quello di intellettuale nevrotica, distaccata dal marito Gianni, che considera miserabile.

La finezza della sceneggiatura di Scola, Age e Scarpelli alterna sequenze di pura commedia dell’arte e momenti di commozione, e il film è ricco di scene cult: uno spettacolo d’avanguardia del quale Antonio non capisce il significato, il disagio emotivo di Luciana attraverso quattro immagini fototessera, o l’equivoco durante il quale Antonio pensa che Gianni sia diventato parcheggiatore.

Scola utilizza il montaggio con raffinatezza, in particolare l’uso originale del flashback (e il flusso di pensiero con il fermo immagine), così come il lavoro coerente sulla fotografia (l’utilizzo del seppia, del bianco e nero e del colore per scandire i vari passaggi temporali). La “Storia nella storia” e i passaggi semi-onirici (lo schermo cinematografico che proietta i sentimenti di Luciana, il dialogo tra Gianni e il fantasma della moglie) sono l’ulteriore punto di forza del film. Lungi dall’essere vanità stilistiche, confermano la forza e la singolarità di un’opera che nel tempo non è invecchiata. Modello di fusione tra cinema popolare e film d’autore, interpretato alla perfezione, C’eravamo tanto amati merita tutto il suo successo.

Ettore Scola rievoca con maestria la mitologia del cinema italiano per meglio delineare i cambiamenti politici e sociali dell’Italia, dal postfascismo al 1974. Illustrando momenti diversi della vita dei tre amici, ne fa da raccordo e sfondo alle loro storie.
L’ammissione finale (“Credevamo di cambiare il mondo, ma il mondo ha cambiato noi”) è quella del fallimento, qualunque sia, d’altronde, il successo sociale o meno raggiunto dai tre personaggi. L’importanza del cinema nel film e questo aforisma finale ci riporta inevitabilmente ad André Bazin quando afferma che “il cinema sostituisce il nostro sguardo con un mondo che si accorda con i nostri desideri”.



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Una risposta a “Credevamo di cambiare il mondo …”

  1. Bravo Massimo,
    Hai tirato fuori dal dimenticatoio un’altro dei nostri capolavori, che nonostante gli anni, merita di essere visto e conosciuto soprattutto dai giovani.

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