Il susseguirsi del tempo di numerosi narrazioni dell’Olocausto subito dagli ebrei europei nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale – e gli altrettanto numerosi film – hanno reso il pubblico avvezzo agli orrori nazisti. Ovviamente non è sempre stato così: il libro Mia è la vendetta di Friedrich Torberg (1908-1979) viene a buon titolo considerato la prima opera di questo sottogenere.
Torberg fu romanziere, poeta, polemista, sceneggiatore, critico teatrale e traduttore. Un campione di quel talento disseminato a pioggia e in abbondanza nell’Europa della prima metà del Novecento e spazzato via (per sempre, è convinzione di chi scrive) dal conflitto. Nato Friedrich Ephraim Kantor in una famiglia di ebrei praghesi trasferitesi a Vienna, seppe guadagnarsi la stima dell’élite culturale delle due capitali mitteleuropee ma – all’addensarsi delle nubi di guerra – dovette dapprima emigrare in Svizzera e da lì a Parigi, per poi emigrare negli Stati Uniti. Nel Nuovo Mondo lavorò come sceneggiatore ingaggiando spesso polemiche con celebri colleghi – da ricordare almeno quella contro Bertolt Brecht e l’etichetta di fellow traveller dei socialisti affibbiata a Thomas Mann – per poi rientrare in Austria nel 1951 dove rimase per il resto della sua vita.
Tornando alla sua opera più nota, la storia di Mia è la vendetta è semplice e lineare: una mattina del 1940 un uomo che aspetta sul molo l’arrivo di alcuni amici dall’Europa è attirato da un misterioso straniero che si mostra inquieto sulla banchina. Quando l’uomo gli chiede chi aspetta, lo straniero risponde che sono esattamente settantacinque quelli che dovrebbero arrivare… ma non arriva mai nessuno. Sollecitato dalla curiosità dell’uomo, lo straniero rievoca con dovizia di particolari il ricordo sconvolgente (“una storia che non si racconta così, tanto per ingannare il tempo”) di quanto accaduto anni fa nel campo di concentramento di Heidenburg e il dilemma posto agli ebrei lì detenuti: se rinunciare a ogni resistenza e la vendetta a Dio (Romani 12:19 “…non vendicatevi mai, ma fate posto all’ira di Dio, perché sta scritto: a me la vendetta, io ricompenserò”) oppure se morire giustiziando il boia.
Il libro presenta almeno due aspetti che lo rendono notevole. Innanzitutto la data di composizione: pubblicato nel 1943, più che una testimonianza Mia è la vendetta è una lucida premonizione. Torberg scrive addirittura nel 1941 e quindi non è un sopravvissuto, potendo solo intuire dalle descrizioni e dai racconti che giungono dai lager cosa succede lì dentro. Non stupisca questa lucidità: Torberg ne aveva già dato dimostrazione all’indomani dell’occupazione di Praga, infilandosi sul primo treno in partenza verso Ovest per scappare alle persecuzioni. Ma l’aspetto più peculiare dell’opera è il dilemma etico sollevato fin dal titolo perché Torberg porta alle conseguenze più estreme il dramma della non-resistenza ebraica: può l’uomo di fede dirsi tale se toglie la vita di un uomo, fosse anche il suo carnefice?
Tra i numerosi meriti dell’attento editore Zandonai di Rovereto (che purtroppo non bastarono a scongiurarne il fallimento!) quello di ripescare questo libro necessario eppure dimenticato. Sebbene infatti fosse una star del suo tempo – a Torberg fu assegnato anche il massimo riconoscimento letterario austriaco – lo spirito politicamente scorretto dello scrittore lo rese inviso tanto a destra che a sinistra, determinandone l’oblio. Nella bella postfazione, il pensatore e studioso di ermeneutica ed esegesi biblica Haim Baharier spiega che “nessuno aveva interesse per lui perché non faceva comodo a nessuno. E così lo dimenticarono. Per me è oggi una mitzvà restituirgli dignità e farlo finalmente rivivere”. E anche per noi.
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