Nel parlare, la scorsa settimana, de Il silenzio degli innocenti, non abbiamo fatto menzione di come Thomas Harris, l’autore dello splendido romanzo da cui è tratto l’ancor più splendido film, nel delineare la figura del terrificante Buffalo Bill si fosse ispirato a un serial killer realmente esistito, vale a dire Ed Gein, il mostro del Winsconsin, che tra il 1947 e il 1957 uccise due persone per poi creare decorazioni di casa dai loro resti. 
Nella purtroppo foltissima schiera di serial killer, Gein, nonostante ve ne siano di altri responsabili di un numero di vittime ben maggiore, è tra quelli che ha maggiormente colpito l’immaginario collettivo, al punto da ispirare non solo il Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti, ma anche Faccia di Cuoio di Non aprite quella porta, il Macellaio di Deranged – il folle e, soprattutto, il leggendario Norman Bates di Psycho. 

Il capolavoro di Alfred Hitchcock, uscito nel 1960, magistrale, rivoluzionario e definitivo, tra i film universalmente più noti di Hitch, massimo successo commerciale della suo suntuosa carriera, in assoluto tra i film più citati e studiati della storia del cinema, come noto fu tratto dall’omonimo romanzo di Robert Bloch, talentuoso scrittore americano, maestro del noir e del thriller, epigono di Lovecraft, che proprio in Psycho, pubblicato nel 1959 (originariamente tradotto in italiano con il titolo Il passato che urla, salvo poi, dal 1965, a fronte del clamoroso successo del film, tornare al titolo originale), trovò il suo romanzo più riuscito. 
Dallo spaventoso mostro del Winsconsin, Bloch prese la vita quasi da eremita in contesti rurali ed isolati, il complesso rapporto con la madre e l’amore per il travestitismo, per farne gli elementi essenziali del suo Norman Bates, vero e proprio motore narrativo del romanzo, che trae la sua forza proprio nell’incentrarsi, assumendone spesso e volentieri la prospettiva, sull’assassino anziché sulle vittime. 

L’idea di Bloch era infatti quella di dar vita a un romanzo che, pur nell’imprescindibilità della componente psicologica e nelle regole classiche del genere, a partire dalla suspense, fosse del tutto brutale, privo di omissioni. Che mostrasse cioè l’orrore nudo e crudo, senza alcuna censura, anzi indugiando sui particolari più truci e scabrosi. 
Lo stile di Bloch, come si diceva di dichiarata ascendenza lovecraftiana, quindi derivante più dall’horror che dal noir, sin dai suoi esordi era caratterizzato da una prosa squisitamente ruvida, rapida ed essenziale, capace di assorbire sia il miglior minimalismo americano del secondo dopoguerra, sia gli artifici della narrativa di genere, mescolandoli alla perfezione in un incedere tagliente e appassionante. 
In Psycho Bloch non rinuncia a nessuno di questi elementi, portandoli al contrario alle estreme conseguenze in un affresco a tutti gli effetti pulp. Anzi, senza troppi indugi, potremmo definire Psycho lo stesso atto fondante della narrativa pulp. Poco, o nessun interesse, alle sottigliezze psicanalitiche, all’insistita indagine interiore, alle digressioni psicologiche e descrittive, a favore di un linguaggio semplice, sbarazzino e spericolato, dialoghi brevi e serrati, azione continua e colate laviche di orrore. In estrema sintesi: adrenalina, sangue e terrore. 
Puro pulp, per l’appunto. 

Nonostante, come si diceva, il film di Hitchcock sia pura storia del cinema, materia di studio per eccellenza di tecnica filmica e registica, sui rapporti con il romanzo di Bloch si tende a sorvolare. O meglio, essendo – caso raro per Hitch, avvezzo a rimaneggiare ampiamente i plot dei romanzi – del tutto invariata la trama, si tende a liquidare frettolosamente la questione come secondaria e trascurabile.

Robert Bloch

In realtà, l’identità della trama è puro fumo negli occhi, andando a nascondere quello che, paradossalmente, è forse uno dei più sottili e complessi lavori di adattamento presenti nella gigantesca filmografia del grande maestro inglese. Se infatti l’intreccio non cambia, risultano del tutto stravolte le modalità di racconto, gli intenti autoriali e, in definitiva e inevitabilmente, i risultati finali. In altre parole, se il “cosa” non cambia, è del tutto diverso il “come”, finendo, implicitamente, per stravolgere anche il “cosa”. 

Andiamo con ordine. Anzitutto, alla base dell’intreccio di Psycho c’è un azzardo drammaturgico a dir poco pazzesco: la protagonista, Marion Crane (Mary nel romanzo), muore a metà della storia. Una trasgressione inaudita di tutte le più logiche e secolari convenzioni narrative. 

Il perché Bloch si lanci in questo triplo salto nel buio è facilmente intuibile. Essendo Mary/Marion una fuggiasca solitaria, non avendo quindi nella prima parte della storia costruito una rete di altri personaggi attorno a sé, l’unico a poter colmare il vuoto narrativo creatosi con la sua morte è il suo assassino, Norman Bates. Un avvicendamento, un passaggio di testimone cui la tela sinistra ordita da Bloch tende sin dall’inizio: trasformare il killer in perno della storia è la conditio sine qua non per dare libero sfogo, nella seconda parte, alle sequenze più truculente, per trasformare un thriller convenzionale in una pulp fiction da incubo. 

Norman Bates, in Bloch, è quindi il mezzo necessario per arrivare al pulp. La sua descrizione, oltre a rimandare specificatamente a Ed Gein, tratteggia il più tipico physique du rôle dell’emarginato, del reietto: basso, grasso, goffo, sgraziato. La sua stessa immagine si delinea come una violenza portata a generare altra violenza, un handicap tramutato in rancore e vendetta. La diversità nel ventre della più assolata provincia americana che deflagra in tragedia. Di fatto, la storia dell’orrore del mostro del Wisconsin tramutata in un romanzo estremo, a suo modo esemplare e destinato a fare scuola. 

Il perché Hitch decida di non alterare, se non in minima (ma decisiva) parte la storia, non è perché la ritenesse perfetta, ma perché non era il plot il fulcro dei suoi interessi. In quel romanzo, a quanto si racconta letteralmente divorato, il regista aveva trovato un qualcosa, un quid che andava ben al di là del semplice intreccio. 

La determinazione di Hitchcock nel voler a tutti i costi realizzare questo film è arcinota: nonostante le perplessità e il parere negativo della Paramount, lo girò lo stesso, con un budget più che ridotto (appena 800mila dollari) e con la piccola troupe della serie tv Alfred Hitchcock racconta. Per un ulteriore risparmio, nell’epoca del technicolor, Psycho fu girato in bianco e nero, risultato alla fine infinitamente più efficace e più adatto alla storia (anche se, a quanto pare, più che da questioni economiche la scelta fu dettata dalla necessità di aggirare la censura non mostrando il rosso del sangue). 

Ma qual era l’intento di Hitch? 
Partiamo da Marion Crane. Come nel romanzo, la donna non è innocente, arriva al Bates Motel dopo una fuga solitaria seguita a un furto. Non è una ladra professionista, perciò il suo è un colpo goffo, e ancora più picaresca è la sua fuga, costellata di ingenuità e imprudenze. Ma l’estraneità al mondo del crimine non ne cancella il reato né la colpa. Anzi Hitchcock, a differenza di Bloch (prima impercettibile ma decisiva difformità), sottolinea la natura clandestina della sua relazione con Sam Loomis, dedicando l’incipit del film al loro fugace incontro segreto consumato in pausa pranzo. Una relazione illecita volta ad accrescere la natura “impura” del personaggio. Se da un lato il film, come il romanzo, va così a costruire la nuova grammatica del noir e del thriller basandola sull’annullamento del confine netto tra bene e male e tra buoni e cattivi, rende problematico il naturale processo di identificazione dello spettatore con il protagonista. Che c’è, avviene, ma non nelle modalità consuete. In sostanza, lo spettatore si identifica con Marion nella misura in cui diventa suo complice, parteggia per lei, spera che non venga scoperta e affidata alla legge. 

Quand’ecco entrare in scena Norman Bates. Che è tutt’altro personaggio rispetto a quello conosciuto nelle pagine di Bloch. Egli ha infatti il volto gentile, piacente e affascinante di Anthony Perkins, modi affabili e tutt’altro che sconvenienti, aria malinconica, a tratti bambinesca. In sostanza, prima ancora del delitto, l’avvicendamento si è già compiuto: il protagonista è già Norman Bates, o quanto meno è a lui, al killer imminente, che tende ad andare l’empatia dello spettatore. Non solo un cambio di protagonista, ma un cambio di prospettiva dello spettatore, che nella seconda parte del film entra in sintonia con il killer, parteggia spudoratamente con lui. Spera che la macchina con il cadavere di Marion sprofondi nei fanghi, resta con il fiato sospeso durante le indagini nei suoi confronti e, già conoscendo il nome del colpevole, la suspense non è data dalla voglia di giustizia ma dalla perversa speranza che non venga scoperto. 

Del resto, la celeberrima e fin troppo citata e analizzata scena della doccia, tra le altre cose, produce anche questo spostamento di punto di vista. Lì, proprio nella doccia, noi spettatori assumiamo il punto di vista del voyeur prima e del killer poi. Una manipolazione emozionale vertiginosa, sensazionale. Se quindi l’intento di Bloch era mostrare la violenza con Bates/Gein come mezzo, quello di Hitch è scatenare un’emozione di massa usando la violenza come mezzo. E siccome la patria dell’emozione di massa è indiscutibilmente la settima arte, lo scopo di Hitchcock, quel quid intravisto tra le righe del romanzo, è il cinema stesso. 

Confiderà il regista anni dopo a François Truffaut nello splendido libro intervista Il cinema secondo Hitchcock
“In Psycho del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche: quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico possano fare urlare il pubblico. Credo sia una grande soddisfazione per noi utilizzare l’arte cinematografica per creare una emozione di massa. E con Psycho ci siamo riusciti. Non è un messaggio che ha incuriosito il pubblico. Non è una grande interpretazione che lo ha sconvolto. Non è un romanzo che ha molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il pubblico è stato il film puro”.

Il film puro. Il cinema puro. 
Del resto, che cos’è la solita sequenza della doccia se non questo, se non cinema allo stato puro? 45 secondi, 72 posizionamenti di macchina, di cui 22 secondi e 35 inquadrature solo per l’accoltellamento, uno dei più brutali, feroci e insostenibili della storia del cinema. Eppure, in nessuna di queste inquadrature la lama affonda mai nella carne della vittima. Siamo noi a vederlo senza vederlo, grazie a un montaggio straordinario e a una colonna sonora incredibile. 
Siamo noi, vittime di quella stupenda illusione chiamata cinema 


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