Tra il 1939 e il 1940, Leonarda Cianciulli, donna ‘per bene’, uccise e fece bollire tre donne, sciogliendone il corpo nella soda caustica. Le cronache nere la riportano alla storia con l’appellativo de ‘la saponificatrice di Correggio’, luogo in cui fu realizzato il misfatto. Liberamente tratto da questo avvenimento di cronaca nera, esce, nel 1977, Gran bollito diretto da Mauro Bolognini. Gli assassinii attribuiti alla Cianciulli fanno da escamotage al regista per costruire una parabola su un tipo particolare di follia umana, ovvero quella che esplode in soggetti umili e insospettabili. E, nel ciò fare, costruisce una perla del genere grottesco.
La riuscita cinematografica dell’opera di Bolognini si esprime tramite un controllo autorevolissimo di tutti i linguaggi di cui questa si compone. Colonna sonora, attori, luci ed elementi di scena sono armoniosamente connotativi della medesima ‘nota stonata’ che pervade la morale di Gran bollito.

Innanzitutto, un plauso particolare va alle scelte attoriali. Accanto a una magnifica Shelley Winters, in qualità dell’omicida, si affiancano tre uomini cui spetta il ruolo scenico delle tre vittime di genere femminile, amiche di ‘Lea’ e frequentatrici della sua casa. Vediamo dunque Max von Sydow, Renato Pozzetto e Alberto Lionello recitare i panni delle assassinate. Questi vengono finemente trasformati in tre attempate signore, assimilate in un atteggiamento di costante voluttà malcelata, più o meno sardonicamente, da un fare castigato e bigotto. Il senso del proibito, direttamente connesso all’elemento del mascheramento, caratterizza i tre personaggi rendendoli appositamente barocchi e dissonanti. Nella seconda parte del film, i medesimi attori vestono il ruolo, rispettivamente, del maresciallo dei carabinieri, di un carabiniere e di un testimone di accusa, come a imbastire un progressivo svelamento della verità e, al contempo, un gioco di richiamo alla ‘coscienza’ dell’omicida. 

Attorno al blocco dei quattro personaggi principali, si intrecciano le vicende di due gruppi secondari. Da un lato, la compagnia amicale che ruota attorno a Lea. Personaggi gioviali che frequentano la sua casa e partecipano della sua ospitalità in una serie di festini domestici votati a una innocente convivialità. Dall’altro, l’entourage familiare: l’adorato figlio e l’odiata fidanzata, la gracile domestica con un ritardo mentale, nonché il marito, colpito da ictus all’inizio del film. Nella relazione con il primo gruppo di personaggi, Lea è una figura generosa, sincera, ospitale. Nel secondo, gli aspetti morbosi e mortiferi della sua personalità prevalgono sinistramente. L’assetto psicologico disturbato della protagonista è infatti costruito attorno ad una gelosia malata nei confronti del figlio ormai adulto, per salvaguardare la vita del quale Lea si decide a perpetrare i propri delitti. Storicamente, infatti, la Cianciulli aveva sofferto a causa di numerosi aborti spontanei e morti in culla di circa una dozzina di figli, prima di riuscire a concepire un bambino che crescesse sano. Ella stessa affermò, nei video di archivio disponibili in rete, che gli omicidi fossero stati necessitati dall’esigenza di proteggere la prole sopravvissuta, pagandone la vita al prezzo di altre vite. La logica perversa di questo meccanismo, a suo dire, si fondava su una maledizione che ella avrebbe ricevuto e da cui era costretta a difendersi coi mezzi dell’esoterismo. 

Nel film, l’aspetto esoterico, rituale e macabro delle azioni di Lea si esprime perfettamente in una serie di elementi di scena. Il tavolo della cucina ha due gambe più corte, per garantire uno scolo come avviene nei tavoli dei macelli. La cucina è spesso avvolta in luci fortemente contrastate e con intere zone in ombra. Il pentolone in cui vengono bolliti, parimenti, le carni per la cena o i resti dissezionati delle povere vittime, possiede un’estetica quasi fiabesca. Ugualmente, la serva di casa -una giovanissima Milena Vukotic- viene utilizzata da Lea come esca virginale per allontanare le attenzioni del figlio dalla nuova fidanzata, in una sorta di rituale di purificazione. La maggior parte delle scene si svolge in ambienti chiusi, connotati da tappezzerie barocche; oppure in chiesa, ove spetta a un giovane prete una parte ambigua di dubbio confessore delle tre voluttuose vittime. Gli abiti, i gioielli, le conversazioni dei personaggi portano con sé il senso di un eccesso, di un’ostentata affettazione che incupisce la visione e ne fa perennemente intuire un doppio fondo.

Il regista ama costruire efficaci richiami tra la dimensione del corpo, ovvero della carne, del cibo e dell’eros, valorizzando di ognuno il lato caduco. Beffardamente, le amiche di Lea, tanto avvezze ai ritrovi di metà pomeriggio, si ritrovano a mangiare le proprie stesse amiche, divenute ingredienti di certi biscotti di Lea. Il tema della carne è mostrato qui sia in senso letterale, nelle scene di macello, che in senso lato, come allusione alla lussuria e al deragliamento morale. L’elemento della scomposizione dell’ordine, del disfacimento, è altresì presagito in una delle scene iniziali, in cui il marito di Lea ha un attacco di ictus. Curiosamente, il regista decide di indugiare su questo episodio -recitato da un magistrale Mario Scaccia- ma mai offre uno spunto voyeuristico sugli omicidi, poiché certamente non di film splatter si va trattando. L’eros è valorizzato nelle sue tinte più decadenti e mortifere. Il tutto concorre, in maniera esatta e a tratti claustrofobica, a trasferire magnificamente, per il mezzo cinematografico, il concetto della follia della ‘gente normale’. Niente è mai sanguinariamente palesato, bensì il male è sottoscritto all’interno di una trama comune fatta di cose ordinarie, da cui tuttavia, a un occhio attento, trapela l’approssimarsi di un cedimento.

La morale di questo meccanismo è lasciata nelle cristalline parole di Lea, allorquando viene arrestata e subisce le invettive della folla. ‘Mostro! Mostro!’. Le gridano, ed essa si rigira nella direzione di quelle voci, sinceramente stupefatta, per poi liquidare l’accusa con un sorriso di compatimento.

Mostro chi? Io?

Infine, non si può tralasciare di accennare alla colonna sonora del film. Questa è stata infatti affidata alla competenza di Enzo Jannacci e certamente non a caso. Il noto cantautore lombardo era infatti un artista che riusciva a esprimersi in maniera scanzonata, talvolta appositamente stonata, su temi di rilevanza sociale e morale. Spesso anche tramite il gusto del nonsense. Ipnotica rimane la scena in cui Renato Pozzetto, nei panni di una falsa tedesca soubrette Stella ‘Kraus’ canta il suo motivetto d’amore ‘Cicche cicche’ al cospetto del suo gruppo di amiche. O, ancora, il fischiettare lugubre che riecheggia in buona parte del film, che a tratti rievoca la ninnananna di ‘Rosemary’s baby’.
Da vedere. 

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