Apparso nel 1953 Il grande caldo di William McGivern nacque all’insegna della velocità. Innanzitutto di scrittura, l’autore lo butto giù di getto in soli ventuno giorni durante una vacanza romana, poi fu il pubblico a decretarne rapidamente il successo e infine – in meno di un anno – la trasposizione cinematografica ne sancì la consacrazione. Sì perché questo gioiello del genere noir, nonostante l’accoglienza trionfale dei lettori americani, sarebbe forse caduto nel dimenticatoio a distanza di oltre settant’anni se non fosse per lo straordinario film firmato da Fritz Lang che lo eternò.
La storia è nota. Il suicidio dell’agente Tom Deery viene velocemente insabbiato dagli inquirenti, che credono alla versione fornita dalla moglie: il poliziotto sarebbe stato afflitto da problemi di salute al punto da ricorrere al gesto estremo. All’onesto sergente Bannion si presenta tuttavia la ballerina di varietà Lucy Carroway, amica del morto, che sostiene di aver incontrato Deery la settimana prima del suicidio e di averlo visto sereno e privo di preoccupazioni. In ogni indagine che si rispetti spuntano testimoni o conoscenti pronti a fornire versioni discordanti, poco male! Se non fosse che l’incauta Lucy viene trovata uccisa brutalmente e Bannion decide di mettersi sulle tracce dei suoi assassini. Che avesse ragione lei e che la morte di Deery nasconda qualcosa di grosso? Il sergente è risoluto ad andare fino in fondo e scoperchiare il putridume che soffoca la sua città ma per farlo dovrà scontrarsi in una lotta all’ultimo sangue con un’organizzazione che ha nel libro paga gangster, funzionari e perfino poliziotti e la verità avrà un prezzo altissimo per Bannion: perderà la sua amata moglie e dovrà perfino rinunciare al distintivo…
Il film di Lang è troppo famoso perché ce ne occupiamo diffusamente in questo nostro spazio, che si propone di segnalare opere da riscoprire o fornire approfondimenti di altro genere. Ci soffermeremo quindi qui sul rapporto tra il romanzo di McGivern e il capolavoro del regista austriaco. Partiamo quindi dai meriti del libro, quasi duecento pagine di adrenalina pura senza un attimo di respiro. Di fatti ne accadono ne Il grande caldo, e la narrazione procede a ritmo serrato catturando il lettore fin dalle prime righe come in ogni noir che si rispetti. I personaggi sono ben delineati con frasi brevi e apparentemente semplici, le situazioni e gli ambienti descritti altrettanto efficacemente, il tutto senza nulla sacrificare alla psicologia dei caratteri. Lo stile dello scrittore di Chicago è perfetto per il cinema e la televisione che, non a caso, lo impiegheranno spesso come sceneggiatore (ricordiamo almeno il soggetto per Strategia di una rapina di Wise e la collaborazione per Il tenente Kojak). Insomma Il grande caldo è bello e pronto per la riduzione in sceneggiatura, come si evince facilmente dai dialoghi trasposti alla lettera sullo schermo.
Ma quindi il grande successo di un film noir così mitico è da attribuire principalmente al soggetto? Direi proprio di no! Certo la storia di un uomo onesto che abbandona la retta via e si allontana dalle regole morali a cui si è attenuto fino a quel momento (nel romanzo Bannion è incredibilmente un lettore di filosofia, sebbene rifugga da Schopenhauer e Nietzsche perché non interessato “a veder abbattere degli idoli a colpi di martello”) e la sua ricerca di giustizia sembrava scritto apposta per interessare Lang, che del tema della colpa e del conflitto tra individuo e società si è occupato per tutta la sua carriera. Ma il grande regista viennese non si limita a mettere sullo schermo la storia e si appropria letteralmente del soggetto con pochi interventi mirati e decisivi.
Abbiamo detto che le differenze rispetto al romanzo sono minime: in che modo quindi Lang riesce a rendere Il grande caldo a tutti gli effetti un film suo? Direi che la risposta è rintracciabile in due aspetti principali. Innanzitutto Lang radicalizza lo scontro tra i personaggi di Bannion (Glenn Ford) e Vince Stone (Lee Marvin). Sullo schermo il loro duello è quasi da western, incarnando l’uno la sete di giustizia e la lotta perché il bene possa trionfare e l’altro rappresentando la crudeltà, il sadismo (indimenticabile la sequenza del caffè bollente lanciato in faccia all’amante Debby Marsh/Gloria Grahame) e la corruzione morale. Rispetto alle pagine di McGivern la missione del protagonista è più solitaria, quasi Lang volesse suggerire che l’individuo deve essere pronto a rinunciare a tutto perché possa prevalere nella sua battaglia. Pur presenti, il ruolo degli elementi “sani” della società è marginale mentre nel libro il polverone sollevato dall’uccisione della vedova Deery innesca un repulisti generale a cui concorrono stampa, funzionari di polizia onesti e privati cittadini. Emergono qui le coordinate europee (leggi: pessimiste) di Lang; il riscatto, così come la colpa, è un affare individuale e non collettivo.
L’altro elemento, funzionale tuttavia a questa estremizzazione voluta da Lang, è la scelta di Glenn Ford nel ruolo del protagonista, spesso trascurato dal duo Grahame/Marvin, effettivamente straordinari e decisivi per il successo del film. Il volto rassicurante dell’attore protagonista accentua il carattere pacifico e socialmente inquadrato di Bannion che tuttavia nel libro viene descritto come un uomo dalla forza fuori dal comune, pronto a farla esplodere all’occorrenza nonostante il controllo che si impone con grande rigore. Niente invece nella prima parte del film fa pensare che lo stesso sergente che vediamo vivere l’idillio domestico con la moglie intenta a cucinare bistecche tra una battuta ironica e l’altra e con la piccola figlia “innamorata” di lui si possa trasformare in un vendicatore spietato. Per questo motivo la seconda parte, quella che vede Bannion svestire i panni del poliziotto e vestire quelli del giustiziere, è ancora più incisiva. Ciascuno di noi ha una doppia natura che i condizionamenti esterni possono fare emergere: se non è questo un tema langhiano!
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