On becoming a guinea fowl, diretto da Rungano Nyoni, 2024, è un film1 che parla di un percorso, evocato già nel titolo nell’”On becoming” che in italiano si rende in “sul diventare”, più da saggistica che da prodotto commerciale come vorrebbe il gergo comunicativo del marketing. Ed effettivamente, alla fine, ci si rende conto che così è, seduti in poltrona, separati da kilometri e kilometri dallo Zambia dove avvengono i fatti rappresentati. Nelle scene iniziali, il costume da ballo della protagonista Shula (Susan Chardy) e le sue scarpe, nella strada notturna e deserta dove scopre il corpo dello zio morto, attenuano questa distanza geografica e visiva; così come di lì a breve la musica che suona dalla cassa portatile di sua cugina Nsansa (Elizabeth Chisela), capitata anche lei lì per caso, mentre rintocca di melodie tribali e insieme moderne, che sono l’origine delle canzoni che imperversano in occidente. Tuttavia, mentre intorno a loro hanno inizio le cerimonie funebri, la distanza si riacuisce: strani gesti e strani rituali, che replicano la morte, che come lei strisciano in una casa e lì vi restano, con gli uomini che rimangono accampati fuori in giardino e le donne a lamentarsi dentro casa, tramite pianti canonizzati che è opportuno abbiano una certa tonalità: tutto questo segna inevitabilmente un solco tra la visione e lo spettatore; il quale non capisce assieme a Shula – contemporanea donna zambiana – perché sia vietato farsi il bagno durante il lutto, perché sia doveroso lasciar accumulare lo sporco (come rammentano le zie più grandi) e, con lei, abbandona di malavoglia le sue call di lavoro.

Così, mentre la storia va avanti e Shula ripercorre i fantasmi del passato e del presente, a poco a poco vengono alla luce i segreti sepolti della sua famiglia borghese. Soprattutto, il film rende partecipi di un rito collettivo che provoca un sottile disagio, persistente per 95 minuti, a tratti soffocante come la moltitudine di fratelli, sorelle, cugini, zii vari che occupano l’intero perimetro della casa della madre di Shula, fino al giorno in cui le due famiglie – del morto e della vedova – si riuniscono per decidere sulla sorte dell’eredità. La sequenza di atti e la gestualità sopravvissuta chissà da quanti millenni, di cui il film è rappresentazione che mischia tradizione e contemporaneità, conservano un arcano significato che sfugge, ma che colpisce, e che sembra appartenere, per lo spettatore occidentale, a un passato lontano.

Passato di cui è testimonianza vivida un cortometraggio di pochi minuti, che rimane indelebile per la sua forza espressiva: Stendalì del 1960, diretto da Cecilia Mangini e con testo di Pier Paolo Pasolini, che è un’ode funebre di un paese per un giovane figlio perduto, avvolto nella morsa della morte. Anche qui le donne sono in casa, madri, spose, sorelle, a svolgere il ruolo delle prefiche; gli uomini rimangono fuori: saranno loro ad accompagnare il corpo al cimitero. “Stendalì” significa “suonano ancora” in grecanico ed è la dimostrazione che, invero, riti avvenivano anche in Italia, non così lontano, precisamente a Martano, in Salento. Le donne cantano, muovono mani e piedi, sventolano fazzoletti secondo cadenze stillate da immemori ripetizioni: “il pianto così regolato e rituale è una sopravvivenza arcaica”2. La somiglianza tra il tratto stilizzato delle azioni di Stendalì e il rito funebre di On becoming a guinea fowl è lampante, ed evidenzia – se ce ne fosse bisogno – una forma mentis che accomuna gli esseri umani di ogni epoca e luogo. “La morte sarebbe intollerabile, priva di senso, se il suo dolore disgregatore non fosse contenuto dal rozzo istituto del «pianto»”3. Di riti del genere nella penisola, sembra non esservi più traccia; sorge quindi la domanda su che fine abbiano potuto fare in Italia, in occidente.

Allora Chantal Akerman ne dà una risposta. In un’intervista descrive il suo Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles, 1975. Il film racconta con minuziosità ipnotizzante la vita monotona della protagonista Jeanne – interpretata dalla bellissima e dunque insolita casalinga Delphine Seyrig –, composta di azioni ben precise, perfettamente scadenzate durante la giornata, che si alternano in modo pressoché uguale tra di loro: la donna cucina e fa le pulizie in casa, aiuta il figlio coi compiti scolastici e sbriga diverse commissioni. Nell’intervista, la regista racconta di come sorprendentemente “chaque geste, chaque geste” in cui è sezionata la vita quotidiana della casalinga, le siano venuti in mente facilmente, senza troppe difficoltà, in quanto parte del suo sangue, per aver vissuto circondata da quei gesti femminili di donne di casa che avevano sostituito “i rituali ebraici”.

Quando il nonno della regista morì, infatti, i rituali che avevano sino ad allora scandito i giorni e le ore della sua famiglia non vennero più perpetrati; così, nella pressocché invisibilità, le gesta cerimoniali tramutarono nelle incombenze inerenti alla gestione della vita domestica: nel rifare il letto, nel lavare i piatti, nel preparare da mangiare. Faccende quotidiane che assumono un ordine cerimoniale e sostituiscono quei riti, e su cui il film si sofferma; e, secondo la regista, “credo portino una sorta di pace. Ecco perché sapere, ogni momento di ogni giorno, cosa [Jeanne] deve fare il momento successivo porta una sorta di pace e tiene a bada l’ansia”4. Tuttavia, un giorno Jeanne Dielman si alza prima del previsto; ha, quindi, del tempo da riempire mentre crolla sulla poltrona del salotto, fuori dai soliti gesti di casalinga; l’ora sembra carica di pericolo nella sua vuota consistenza e rappresenta l’incrinatura che darà una svolta alla sequenza ripetitiva di atti.

In occidente, quindi, i rituali forse non sono del tutto scomparsi. Anzi, mentre in generale è ammesso parlare di alcune cose con la premessa di definirle folklore, c’è chi ha acutamente osservato come la trasmutazione o, meglio, la trasmigrazione dei riti è avvenuta sotto i nostri occhi e, ogni giorno, continua la loro celebrazione. Sotto la sua evidente rilevanza economica, uno dei fenomeni che maggiormente caratterizza la vita del mondo globale contemporaneo nasconde, infatti, un’occulta funzione. Oltre a costituire una delle attività imprenditoriali più redditizie, la pubblicità è una ripetizione di immagini, suoni, gesti: “è una cerimonia ininterrotta, a cui non si può fuggire”5; ed è banale riscontrare la crescente pervasività del mezzo, tanto che non c’è dispositivo, piattaforma o luogo del pianeta che non sia raggiunto dalla sua costante presenza. La pubblicità arriva a coinvolgere anche ciascuna persona, che, nell’auto-esposizione perpetrata attraverso i social media, pubblicizza se stessa contribuendo alla sua “incessante espansione”6 in ogni anfratto, così del mondo come della mente umana.

La coazione a ripetere insita nel pubblicare, secondo lo schema del social, video e scatti fotografici della vacanza trascorsa a Bali o a Cuba o il post che immortala un evento professionale o personale, assicura il conferimento di una consistenza di significato all’esperienza, secondo la massima da alcuni affermata a mo’ di battuta: “se non lo pubblichi, è come se non l’hai mai fatto!”. Proprio l’esperienza dei social mostra come, in fondo, la pubblicità nel suo insieme replica la tipica funzione del rito, che è proprio quella di fondare il senso di ogni singolo atto: è il rito per eccellenza della società contemporanea, a cui assistiamo continuamente. Non solo, dunque, in Zambia sopravvivono rituali millenari – e chissà per quanto ancora – come, ad esempio, per la lamentazione funebre di cui On becoming a guinea fowl ne è una recentissima rappresentazione; anche in occidente, sorprendentemente, abbiamo superato per poi ricomporre in altra forma atti di cui forse non riusciamo a – e non possiamo – farne a meno. Rimane incerto cosa mai possa un’ora di vuoto, fuori dalla reiterazione incessante della pubblicità, provocare in ciascuno di noi, come per Jeanne Dielman, svegliata per errore prima del solito, un’ora fuori dai soliti gesti di casalinga.


1  Il film è stato premiato per la miglior regia a “Un Certain Regard” al Festival di Cannes 2024
2 Stendalì, diretto da C. Mangini, 1960
3 Stendalì, diretto da C. Mangini, 1960
4 C. Akerman, Intervista per The Criterion Collection, Parigi, 2009
5 R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano, 2017, p. 61
6 R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano, 2017, p. 61

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