Lo scrittore elvetico-francese Blaise Cendrars è fra i protagonisti de I libri nella mia vita di Henry Miller, una lettura che ultra-consiglio, se non altro per l’originalità dell’approccio: in sintesi, estrema, è un’autobiografia intellettuale. Prima di  imbattermi nel saggio di Miller, di  Cendrars ignoravo anche il nome, così come sconosciuti m’erano (my bad, mea culpa), anche John Cowper Powys (1872-1963), -da non confondere con Theodore Francis Powys (1875-1953) autore de Il buon vino del signor Weston e Gli dei di Mr Tasker-, Richard Jefferies, panpsichista romantico, Jean Giono e Rider Haggard, e soprattutto Claude Houghton (1889-1961), lo scrittore britannico autore di Io sono Jonathan Scrivener, uno dei più bei romanzi che ho letto negli ultimi anni: il protagonista James Wrexham è un trentanovenne impiegato in uno studio legale; accetta l’offerta che potrebbe cambiargli la vita: diventare segretario del signor Jonathan Scrivener. Assunto senza aver mai incontrato il suo datore di lavoro, Wrexham si ritrova da solo nell’appartamento di Scrivener, riceve vaghe istruzioni attraverso un avvocato e, poco a poco, comincia a sospettare di essere vittima di un diabolico esperimento. La bizzarra serie di ospiti che ha libero accesso alla casa – una giovane dall’eterea bellezza, un playboy, un cinico alcolista, una vedova che potrebbe aver ucciso il marito – non contribuisce di certo a chiarirgli le idee. Spiriti inquieti, tutti questi personaggi hanno una storia da raccontare sul conto di Jonathan Scrivener, ma le versioni non collimano e l’assente padrone di casa appare di volta in volta come un degenerato, un simpatico avventuriero, un misantropo, un attore fallito o un artista di genio. Chi è l’uomo che si nasconde dietro questa personalità multipla? E che cosa vuole veramente dal sempre più perplesso segretario? Di questo romanzo Henry Miller scrisse la prefazione.

I libri nella mia vita non sono solo un altro modo di fare autobiografia, è anche una guida che permette di scoprire o riscoprire una vasta tribù di autori sconosciuti o presto dimenticati. E fra questi sull’orizzonte di Miller spicca il faro di Blaise Cendrars. Nato nel 1887 in Svizzera, a La Chaux-de-Fonds, da padre svizzero e madre scozzese, Blaise Cendrars fuggì di casa quindicenne per seguire un mercante di diamanti attraverso l’Asia. Nel corso della sua vita fu studente di medicina, apicultore, clown, bracciante, e visse a Parigi, Londra, Berna e in Canada (raggiunto attraverso la Russia). Ma Cendrars considerò sempre Parigi la sua vera patria, e a Parigi si arruolò nella Legione straniera, nelle cui file combatté durante la Grande Guerra. Figura carismatica per più di una generazione di scrittori transalpini (e non solo: è appunto uno degli scrittori cult di Henry Miller), Cendrars fu amico di tutti i più illustri parigini del milieu cubista. Morì nel 1961.

La Grande Guerra ha ispirato una vasta letteratura – come tutte le grandi guerre in generale dall’Iliade alla Guerra del Peloponneso (il capolavoro di Tucidide) – di molti dei più grandi scrittori del Novecento, ancora letti e amati: Hemingway (Addio alle armi riporta alla sua esperienza di volontario sulla scia di non pochi scrittori americani come John Dos Passos, William Faulkner, Scott Fitzgerald, Edward Estlin Cummings), di Céline con il suo Viaggio al termine della notte, Giuseppe Ungaretti, Eric Maria Remarque (Niente di nuovo sul fronte occidentale). Tra questi il più estremo forse il più potente è La mano mozza di Blaise Cendrars. Cronaca truculenta e picaresca, sicuramente -almeno in parte- autobiografica, La mano mozza racconta la vita e la morte di una lurida truppa della Legione Straniera, una schiera di disperati capaci di qualunque bravata, tra i quali spicca lo stesso Cendrars, soldato scelto: primo per violenza, primo nell’affrontare il pericolo, primo nelle bestemmie, primo incosciente e inguaribile romantico, finché il 26 settembre 1915, una raffica di mitragliatrice gli porta via la mano destra.

Presentato nella magistrale traduzione di Giorgio Caproni, La mano mozza, pubblicato in Francia nel 1946, è forse il capolavoro del grande scrittore francese. Blaise Cendrars è stato il grande avventuriero della letteratura moderna, l’eterno nomade, vorace, curioso, affabulatorio, oscillante fra la Legione Straniera e il music hall, fra le roulette degli zingari e la pampa, fra la moviola e la Transiberiana. Da quando scappò di casa, nel 1903, a sedici anni, la sua vita non ha fatto che cambiare scenari, lo ha immerso in mondi sbarrati e cifrati per gli estranei, dove però si trovava ogni volta ad abitare con naturalezza. Viaggiava senza tregua, ma non è stato mai un turista. Quasi senza farci caso, fu tra gli inventori della poesia moderna. Ma si sottrasse subito a quella trappola che era il mestiere dell’avanguardia.

Con strafottenza e fierezza, proclamava: «Io non intingo la penna in un calamaio, ma nella vita». Col suo gusto per il concreto, trovava ovunque l’enormità, l’immagine dirompente, traboccante: nella periferia di Parigi come nei suoi vagabondaggi sudamericani (mentre i suoi colleghi andavano a Mosca: «Gli altri credevano all’avvento del socialismo perché sono di formazione universitaria, io no. Io prevedevo soltanto l’antico massacro… la guerra sofisticata dalla scienza»). Gli mancava senz’altro la «formazione universitaria», ma forse appunto per questo Cendrars fu anche una sorta di erudito selvaggio, uno dei pochi che sapevano riconoscere nelle biblioteche un’ultima giungla. Nelle Rapsodie gitane (1945) Cendrars traversa a zigzag la sua vita – e mai come in queste pagine lo sentiamo presente, in tutta la densità della sua persona. Qui Cendrars si abbandona senza ritegno all’arte della narrazione orale, in cui sapeva maestri i suoi amici gitani, quando si raccontano le storie della tribù, nelle veglie notturne accanto al fuoco.

Vivere non basta, bisogna raccontare. Così, in mezzo a digressioni e deviazioni, lo seguiamo mentre evoca figure icastiche: l’eccentrico poligrafo Gustave Le Rouge e i suoi armadi a specchio, la messicana Paquita, «strega depravata», dal colossale patrimonio, con la sua collezione di bambole di cera, il gitano Sawo e le sue atroci storie di vendette, rivalse, gelosie tribali. E qui la letteratura, che Cendrars aveva finto di voler abbandonare, si prende la sua tarda vittoria: perché ogni storia lievita e si dilata di là di ogni possibile documentabilità biografica. C’è qualcosa di continuamente eccessivo e improbabile e, insieme, di palpabilmente vero in ciascuna di queste «rapsodie». Forse anche perché ci arrivano traversando una vita che era tutta un’affabulazione. 

Gustave Le Rouge

Un doppio diabolico e allucinato dell’autore è lo stesso Moravagine, ultimo discendente di una famiglia reale, che Raymond la Science, un anarchico ghigliottinato nel 1913, aiuta a fuggire da una clinica per alienati e in compagnia del quale vivrà le peripezie più mirabolanti: saranno terroristi nella Russia zarista del 1905, prigionieri degli indios blu sulle sponde dell’Orinoco, volontari nei corso della prima guerra mondiale. Moravagine è la «grande belva umana», «amorale», «fuorilegge», un essere che incarna la follia e il male, che uccide «spesso per puro divertimento», teorizza che «tutto quanto è solo disordine» e che chi ha paura del disordine ha paura della vita stessa: la quale non è altro che «delitto, furto, gelosia, fame, menzogna, sborra, stupidità, malattie, eruzioni vulcaniche, terremoti, mucchi di cadaveri», e che non esiste verità, ma solo l’azione, «l’azione effimera», «l’azione antagonista». 

Naturalmente  non siamo d’accordo. Ma dobbiamo ricordare il clima in cui è stato scritto questo libro, Opera dalla genesi difficile, Moravagine ha occupato Cendrars tra 1914 e il 1925, parallelamente a molti altri lavori. Ci ritornerà durante tutta la vita per commentarlo, ritoccarlo o ampliarlo. Tra i modelli di ispirazione di Moravagine figurano forse il medico e psicanalista Otto Gross, così come Adolf Wölfli (1864-1930), affetto da una grave schizofrenia e internato nel manicomio di Waldau, nei pressi di Berna. La struttura e l’idea di base del romanzo ricordano analoghi libri costruiti sul concetto del doppio (o del triplo) dell’autore come Gog di Giovanni Papini.

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