La belva deve morire (1938) è un classico della letteratura poliziesca noto soprattutto per essere tra le crime novel segnalate da Borges – che nel suo Testi prigionieri definisce addirittura “mirabile”1 questo libro affermando come il lettore non avrà a pentirsi della sua scelta – e per condividere insieme al più noto “appuntamento con un milione di dollari” del Chandler di Il grande sonno l’incipit più folgorante. “Ho deciso di uccidere un uomo. Non so chi sia né dove viva, non ho idea di che aspetto abbia. Ma lo troverò e lo ucciderò”: poche righe per entrare subito nel vivo, come solo i grandi scrittori sanno fare.
Infatti l’autore del romanzo – portato sullo schermo in modo poco efficace da Claude Chabrol nel 1969 (Ucciderò un uomo) – è un letterato di razza, nientemeno che il poet laureate Cecil Day-Lewis. Nato nel 1904 in Irlanda, Day-Lewis detiene un posto rilevante nel parnaso dei poeti di lingua inglese del Novecento. L’edizione critica della sua opera poetica, influenzata dall’amico di maggior successo W. H. Auden con cui condivise l’impegno sociale e politico e – almeno per qualche tempo – l’interesse per il marxismo, raccoglie in dieci volumi i versi scritti dall’esordio nel 1925 alla morte nel 1972. Avido di vita, Day-Lewis fu prestigioso Norton Professor ad Harvard (carica ricoperta, tra gli altri, da personaggi quali Borges, Eliot e Calvino), appassionato traduttore di Virgilio, donnaiolo dai molti amori e dalla numerosa prole (il pluripremiato Daniel Day-Lewis è suo figlio), nonché militante comunista per poi diventare acceso anticomunista.
Scritto da Day-Lewis sotto lo pseudonimo di Nicholas Blake per non correre il rischio che il cimento in un genere considerato minore danneggiasse le sue carriere accademica e letteraria, La belva deve morire è sicuramente il vertice della produzione “gialla” avviata nel 1935: dopo il primo Questione di prove scritto per procurarsi un po’ di soldi, apprezzato dalla critica ma che quasi gli costò il posto a scuola per la descrizione di una relazione adulterina con protagonista un insegnante, arriveranno una ventina di opere, alcune non ancora tradotte in Italia.
La belva deve morire – disponibile nella bella collana I bassotti dell’editore Polillo – è in grado di soddisfare anche i palati più fini. Abbondano i riferimenti letterari, da Cicerone a ballate popolari scozzesi, da Virgilio a San Paolo, fino all’imprescindibile Shakespeare, in una struttura letteraria che, soprattutto nella prima parte, omaggia chiaramente il Dostoevskij di Delitto e castigo.Un uomo – rimasto vedovo – si mette sulle tracce del colpevole della morte del suo unico figlio, investito fatalmente da un’automobile davanti a casa. Un mix di tenacia e buona sorte lo conduce sulla pista giusta ma consumare la vendetta non risulta così facile! L’investigatore gentiluomo Nigel Strangeways (quanto è letterario, anzi direi poetico, questo nome!), modellato su immagine di Auden con la sua eccentricità e la sua erudizione, si mette ad indagare su una morte che vuole sembrare accidentale e invece rivela uno spietato gioco di specchi: sarò nientemeno che il principe Amleto a fornire la chiave per la soluzione del caso.
1 Jorge Luis Borges, Testi prigionieri, Adelphi, Milano, 1996 – pag. 240
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