La saga de La piovra (1984-2001) ha rappresentato, fra alti e bassi e aspre polemiche politiche, uno dei più grandi successi del “made in Italy” nell’ambito dello spettacolo televisivo. Esportata in centinaia di paesi, la serie vanta il primato di aver inventato un “format” (la miniserie) che è poi diventato una costante della produzione televisiva (e pertanto in seguito mutuata dagli altri).
Questo saggio ne ripercorre le vicende produttive, artistiche, sociologiche e politiche.
Come uno spettatore dell’epoca ho rivisto, col senno di poi, tutta la serie su Dvd, nell’orribile formato 4:3 e con un’immagine rimasterizzata in alta definizione (solo La piovra 10 è stata girata in maniera tale da poterne fruire in 16:9).
Il lettore si renderà conto, leggendo questo saggio, che ho preferito mantenermi il più possibile neutro nella narrazione, avvalendomi di un cospicuo materiale (spesso attinto “a caldo” dalla stampa dell’epoca). Ma qui, brevemente, mi sento di chiarire il mio personalissimo punto di vista sul “prodotto”, ormai lontani dall’attualità.
Quando la scelta del primo capitolo cadde su Damiano Damiani, sulla carta fu l’opzione giusta per la storia che vantava il regista. Pur tuttavia, vista oggi, la narrazione non riflette il suo stile “americano”, soffocato proprio dallo “schermo quadrato”. Damiani stesso, del resto, fu contento – nonostante il successo planetario – di sfilarsi dal progetto.
Sostituito da Florestano Vancini, non si percepì una sostanziale differenza di mano, a parte una scelta geniale: al posto del pur bravo Riz Ortolani fu inserito Ennio Morricone (che diventerà la vera firma de La piovra). All’epoca non ci si rese realmente conto, ma riascoltata oggi, la sua colonna sonora è straordinaria (anche se talvolta, ma era un po’ una sua prassi, prende a prestito arie note del Maestro).
L’arrivo del più anonimo, e prettamente televisivo, Luigi Perelli impresse maggior azione (ispirata al poliziottesco italiano) al resto della serie. Un cambio di passo la cui responsabilità è anche da attribuire al passaggio, in sceneggiatura, da Ennio De Concini (che comunque ne darà per sempre l’impronta) ai più “politici” Rulli & Petraglia.
Comunque la si voglia vedere, La piovra riesce soprattutto a creare dei protagonisti che diventeranno eterni: il commissario Corrado Cattani (Michele Placido), la giudice Silvia Conti (Patricia Millardet) e il cattivissimo “Tano” Cariddi (Remo Girone). Cattani incarna l’eroe romantico tradizionale; Silvia Conti è un interessante ritratto di donna e professionista (in un periodo dove c’era poco spazio per donne protagoniste); e “Tano” diventa rappresentazione iconica delle mille sfaccettature del male.
Gli altri due protagonisti maschili, Vittorio Mezzogiorno e Raoul Bova, rimarranno in qualche modo schiacciati dalla performance di Michele Placido.
Scrivevo che Perelli diresse “il resto della serie”, ovviamente a parte le puntate Otto e Nove, affidate alla mano registicamente molto più esperta di Giacomo Battiato ma che, anche a causa della trama fuori dall’attualità, non poté rinnovare la magia.
Detto questo, è innegabile che nel suo insieme La piovra è un’opera complessa, che ha cercato di radiografare con onestà l’organizzazione mafiosa, descrivendo con lucidità (e verità) la sua infiltrazione nella finanza e nello Stato per poi aprirsi lucidamente ai mercati della globalizzazione che stava avanzando.
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