Uscito nelle sale americane nel settembre 1984 e in Italia nel dicembre di quello stesso anno, compie 40 anni Amadeus (Id.). La storia degli ultimi dieci anni di vita di Mozart, trascorsi a Vienna alle prese con l’ostilità di una corte ottusa e soprattutto con la gelosia crescente del maestro Salieri (venerato dall’Imperatore fino all’arrivo nella capitale austriaca del genio salisburghese che non perdeva occasione per umiliarlo), è stato uno dei maggiori successi del cinema anni Ottanta. Firmato da Miloš Forman – che evidentemente quando azzeccava il titolo sbancava l’Academy – il film assicurò al regista cecoslovacco otto premi Oscar, addirittura tre in più di Qualcuno volò sul nido del cuculo, il trionfale titolo del decennio precedente.
Tratto dalla sceneggiatura del drammaturgo inglese Peter Shaffer, Amadeus è raccontato con gli occhi di Antonio Salieri che confessa – ormai vecchio e malato – come sia stato il vero responsabile della morte del più grande genio della storia. Autoproclamandosi campione e santo patrono dei mediocri, il compositore italiano descrive l’arrivo del terremoto Mozart alla corte di Vienna. Una personalità larger than life diremmo oggi, infantile ma debordante, sfrontata e volgare nel privato tanto elegante e raffinata dal punto di vista musicale, che ha finito per costruire da solo le premesse per la sua rovina. Attingendo a una tradizione che i critici letterari fanno risalire nientemeno che a Puskin, Shaffer immagina Salieri divorato via via da una crescente invidia per il talento di gran lunga superiore del collega da volerne provocare la morte. L’interesse del drammaturgo non è tanto rivolto all’attendibilità storica quanto al contrasto tra genialità e grigia ordinarietà.
Trattandosi di un film su Mozart, inutile dire come siano divini i pezzi eseguiti durante le quasi tre ore complessive: la produzione convinse il direttore d’orchestra Marriner a supervisionare l’esecuzione dei brani con risultati eccellenti. All’altezza anche i costumi, con riproduzioni accurate nei minimi dettagli, e la scenografia che – copiando l’intuizione di Kubrick per Barry Lindon – utilizzò esclusivamente luci naturali o prodotte da candele. Impossibile inoltre pensare a Amadeus senza il contributo di Praga, una città il cui destino è evidentemente legato a quello di Mozart. Se, in vita il compositore, fu proprio Praga a tributargli i maggiori onori, nel caso del film l’allora capitale cecoslovacca venne identificata per riprodurre le ambientazioni del secolo XVIII. Una felice intuizione e una soluzione destinata ad accontentare tutti: oltrecortina potevano incassare dollari sonanti, la produzione avere a disposizione una città dove ricostruire efficacemente le scene di fine Settecento e Forman ritornare nel suo Paese per la prima volta dopo l’esilio forzato a cui era stato costretto dal 1969.
Per le due parti principali furono scelti F. Murray Abraham (Salieri) e Tom Hulce (Mozart). Se il primo era già familiare, se non notissimo, al grande pubblico prevalentemente per ruoli secondari in grandi produzioni hollywoodiane (Serpico, Tutti gli uomini del presidente, Scarface), il secondo poteva vantare praticamente solo la partecipazione a Animal House(1978) a fianco di John Belushi. Fiumi d’inchiostro sono già stati consumati per lodare le performance dei due attori, che qui forniscono le interpretazioni migliori della loro carriera (e Murray Abraham si porterà a casa anche una statuetta dell’Academy). Qui ci limitiamo a osservare come fu lo stesso Forman a pretendere volti poco noti perché preferiva favorire la concentrazione del pubblico sui personaggi piuttosto che sugli attori.
Il risultato è un capolavoro che, rivisto oggi, sembra non invecchiare mai.
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