Del ricchissimo e variegato mondo della letteratura mitteleuropea dei primi decenni del Novecento, una voce purtroppo poco nota è quella di Hermann Ungar. Anche il lettore più attento solo casualmente potrebbe imbattersi in Italia nelle opere di questo autore – scomparso il 28 ottobre del 1929, a soli 36 anni, a seguito di un attacco di appendicite che i medici sottovalutarono scambiando il male per una manifestazione di ipocondria: sono passati ormai più di dieci anni dalla pubblicazione da parte di Silvy Edizioni dei romanzi La classe e I mutilati e più di trenta da quella di Bollati Boringhieri di Ragazzi e assassini, oltre che del già citato I mutilati. Un danno tra i tanti prodotti dalla desertificazione culturale in corso nel nostro Paese, l’oblio di uno scrittore definito “dal talento straordinario” da Thomas Mann e stimato anche da Stefan Zweig.
Nato a Boskovice in Moravia nel 1893 in una ricca famiglia ebrea di lingua tedesca (come tutta la comunità che viveva nel ghetto della città), dopo il ginnasio inizia gli studi di legge che lo conducono dapprima a Berlino e Monaco per finire a Praga dove – dopo la guerra combattuta sul fronte russo – intraprende la carriera di impiegato di banca. Nel 1920 è di nuovo a Berlino come rappresentante del Ministero degli Esteri della Repubblica Cecoslovacca sorta dopo la Prima Guerra Mondiale dalle ceneri dell’Impero Asburgico. Nello stesso anno avvia l’attività letteraria, rigorosamente in tedesco: nel 1920 escono i due racconti di Ragazzi e assassini a cui faranno seguito nel ‘23 I mutilati, nel ‘25 il racconto L’assassinio del capitano Hanika. (Tragedia di un matrimonio) e infine, nel ’26, La classe. Tornato a Praga, dopo anni di dilettantismo, per un anno Ungar si interroga sulla necessità di diventare uno scrittore a tempo pieno ma la morte lo sorprende appena tre settimane dopo aver preso la definitiva decisione e aver ottenuto il congedo.
La città di Boskovice
La provenienza borghese, i continui viaggi nelle capitali culturali del mondo tedesco, la guerra e perfino la tragica morte rendono la biografia di Ungar paradigmatica della condizione di molti grandi spiriti di quel favoloso mondo dell’Europa centrale spazzato via nel cosiddetto secolo breve. Ma le ragioni della sua appartenenza a quel ricchissimo mondo letterario sono molto più profonde. Partiamo innanzitutto da un’attenta notazione di Giuseppe Dierna sugli scrittori moravi: “rispetto ai confratelli praghesi la loro scrittura si caratterizza per un più minuzioso realismo, per la chiara tendenza a una prosa psicologistica che, se da un lato riflette influenze dostoevskiane e gli effluvi psicoanalitici che si irradiano dalla vicina Vienna (lo stesso Freud era nato in Moravia), dall’altro attinge al retaggio di una tradizione già viva – nella Moravia di lingua tedesca – nei racconti tragici di Jakob Julius David o nelle malinconiche narrazioni di Ferdinand von Saar”1.
Fin dalle prime pagine de Ragazzi e assassini la penna di Ungar ci proietta, ad esempio, in un mondo dostoevskiano. È facile avvertirne l’eco nella descrizione di sé del protagonista di Storia di un assassino (il primo dei due racconti) come di un essere gracile e debole, “piccolo, magro, smunto”, troppo simile al celebre incipit “Io sono un uomo malato” di Memorie dal sottosuolo. Ma tutto il racconto è permeato dallo spirito del grande pietroburghese e di tanta letteratura russa nelle umiliazioni che il protagonista e suo padre subiscono quotidianamente, nell’epilogo improvviso, irrazionale e violento e nella descrizione senza fronzoli né infingimenti della meschinità dell’animo umano. La descrizione del barbiere gobbo, causa involontaria della tragedia finale sebbene sadico persecutore dell’ufficiale in pensione padre del narratore, ritengo sia un efficace esempio di questa capacità di Ungar: “individui simili, brutti, deformi e deboli, sono servili e umili con tutto ciò che è più forte di loro. Ma lo odiano e sanno anientarlo, se mostra un lato debole o cade in loro potere”2 . Ungar vuole che il lettore beva fino in fondo la feccia di un mondo di invidie, piccinerie, meschinità che ricorda da vicino anche le pagine di Joseph Roth – altro grande narratore ebreo di lingua tedesca contemporaneo dello scrittore.
L’eredità letteraria di tre culture – ceca, tedesca ed ebraica – ciucciate insieme al latte materno si amplia quindi con gli influssi provenienti dalla Russia. I mutilati (“romanzo di dolorosa forza”, secondo Mann) segue impietosamente la caduta dell’impiegato di banca Franz Polzer che diventa, nella sua misera interiorità e nei complessati rapporti sociali (qui davvero sono ravvisabili echi di Kafka, altrimenti solitamente poco accostabile a Ungar) quasi un caso da manuale psichiatrico. “Disgusto e vergogna sembrano essere le conseguenze di ogni azione di Franz Polzer: l’amicizia è ingannevole, l’amore non esiste, il sesso è violenza e tormento, l’umiliazione è sempre in agguato dietro ogni angolo. Nudo, vulnerabile e deriso, egli trascina le proprie giornate tentando di arginare i suoi terrori con la ritualità e l’ossessione per l’ordine, una fragile sponda che nulla riesce a preservare”3.
L’autore ritratto nel 1908 con Felix Loria, l’amico di tutta una vita
Paure, ossessioni e nevrosi che ritroviamo anche nell’opera forse più completa dell’autore. La classe inserisce Ungar all’interno di quel sottogenere che descrive il rapporto tra allievi e maestro ma lo scrittore moravo ribalta la prospettiva assumendo il punto di vista del precettore, contrariamente ai classici di Musil, Walser e Hesse. Così per il professor Blau il mondo esterno è un avversario: condivide la vita domestica con la moglie incinta sulla cui moralità nutre dei sospetti e con l’odiata suocera mentre immagina i suoi studenti come persecutori sempre intenti a escogitare dispetti nei suoi confronti. Perfino i colleghi e i servitori vengono percepiti come ostili, esponenti di un mondo dall’ordine infranto a metà tra il collasso storico de La Cripta dei Cappuccini e la condizione esistenziale e per questo totalizzante di Josef K.
“Lo scavo nel profondo dei personaggi (egli «opera chirurgicamente le loro nere anime infelici, mostrandone la struttura», aveva scritto nel ’26 il suo traduttore ceco Jan Germela), lo svelamento dei meccanismi psichici individuali, furono per Ungar l’impulso maggiore di una scrittura che si è sempre posta come registrazione dall’interno, descrizione dei complicati processi con i quali l’individuo reagisce agli stimoli esterni”4. Questi i principali motivi che rendono Ungar ancora attuale. Auspico che qualche editore coraggioso possa riscoprire il valore senza tempo della sua prosa.
1 Giuseppe Dierna, La classe morta di Hermann, Larepubblica.it, 29 gennaio 1992
2Hermann Ungar, Ragazzi e assassini (trad. it. Clara Bovero), Bollati Boringhieri, Torino, 1990 – pag. 18
3 Cfr. l’articolo La classe di Hermann Ungar, ilcollezionistadiletture.com, 5 febbraio 2018
4 Giuseppe Dierna, Hermann Ungar: uno scrittore dimenticato nella Praga degli anni Venti, cafegolem.com, 27 aprile 2012
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