(Re)visione di “Sotto il vestito niente” fashion-thriller vanziniano, all’epoca snobbato dalla critica

Il 1985 è un anno importante per il cinema italiano. Un anno in cui la nostra industria prova ancora a mostrare i muscoli contro lo strapotere dei colossi hollywoodiani che invadono i nostri schermi.

Saranno gli ultimi fuochi, gli ultimi bagliori di un’industria, quella tricolore, che nel giro di poco tempo soccomberà, affossata da logiche di mercato spietate. A morire, a spegnersi lentamente, sarà il cinema di genere (l’horror, il poliziesco, l’erotico soft, il comico di serie B), che tanta linfa aveva apportato alla nostra industria (grazie anche allo sfruttamento delle sale di seconda e terza visione, che verranno sostituite da garage, supermercati e altri luoghi ameni). A tenere botta sarà solo la commedia (nel senso più ampio del termine), che riuscirà a sfruttare ancora per qualche anno i volti della vecchia guardia (Sordi, Tognazzi, Manfredi), si abbarbicherà come una cozza su uno scoglio alla nuova (Verdone, Nuti, Benigni) e farà tombola con la comicità neocatodica dei fratelli Vanzina.

Hollywood dicevamo e il suo strapotere. Basta dare un’occhiata alla top ten del 1985-86 per fugare ogni dubbio. Il primo e il secondo posto sono appannaggio di Sly Stallone (Rambo 2 – La vendettaRocky IV), al terzo lo scandalo annunciato di Nove settimane e 1/2, al quarto La mia Africa di Sidney Pollack, al quinto il Ritorno al futuro di Zemeckis.

Per trovare un film italiano bisogna arrivare alla sesta posizione che – ma guarda un po’ – è una commedia: Amici miei – Atto III. E poi? E poi ancora commedie, signori cari. C’è quella crepuscolare e intimista di Mario Monicelli all’ottavo posto (Speriamo che sia femmina), c’è quella malinconicamente sdolcinata di Francesco Nuti al nono (Tutta colpa del paradiso).

Solo e soltanto commedia. In Italia sembra che sia l’unico genere che tiri. E se scorriamo la classifica fino alla cinquantesima posizione i titoli sigillano il postulato: Troppo forte (13° posto), Yuppies – I giovani di successo (18°), Joan Lui (23°), I pompieri(31°), Il mistero di Bellavista (34°), È arrivato mio fratello (36°), Il tenente dei carabinieri (45°). Insomma, fatti i dovuti distinguo fra pellicola e pellicola, possiamo dire che la risata italica tiene banco.

Però – e qui è importante soffermarsi – ancora è possibile imbattersi nel cinema di genere, si possono ancora incontrare lungo il percorso film che deviano dalle coordinate comiche e riescono a dire la loro al box office. Come dicevamo prima, si tratta degli ultimi battiti, di fuochi ardenti ma già in procinto di diventare fatui, di elettroencefalogrammi che diventeranno piatti.

E allora diamo ancora una scorsa alla classifica: le burrose forme di Serena Grandi immortalata dal più famoso porcellone d’Italia, il nostro Tinto nazionale, si attestano al 16° posto (Miranda); il grottesco partenopeo di Lina Wertmüller al 27° (Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti); l’horror metafilmico di Lamberto Bava al 42° (Demoni); il softcore con ambizioni psicanalitiche di Gabriele Lavia al 43° (Scandalosa Gilda) e, infine, ancora Serena Grandi che mostra le tette al 48° (La signora della notte).

E arriviamo a Sotto il vestito niente che in quell’anno di grazia 1985 si posiziona al 22° posto, quindi in un regno intermedio che però, data la matrice thriller a cui appartiene, può considerarsi un successo.

Lo dirigono, con perizia, quei Vanzina Bros. che dagli inizi del decennio, anno dopo anno, si stanno consolidando come una certezza al botteghino. Figli del grande Steno, dopo gli inizi in sordina alla fine dei Seventies (l’esordio, Luna di miele in tre, è del 1976), iniziano a dire la loro nei primissimi e dorati eighties, inanellando successi su successi.

Il loro è un cinema vacuo, ma nel senso migliore del termine, quindi spensierato, caciarone, capace di cogliere il presente dell’Italia che in molti non riescono a scorgere. Lo Stivale, uscito con le ossa rotte dal “riflusso”, sventrato dalla strategia della tensione e calpestato dagli anfibi della celere è uno strano UFO. Ancora vicino alla parossistica violenza degli anni di piombo eppure già con un piede, forse due, nell’edonismo e nello yuppismo successivo. Ecco allora che pellicole come Arrivano i gatti(1980), I fichissimi (1981) ma soprattutto Sapore di mare e Vacanze di Natale (1983) diventano gli emblemi di un nuovo Paese e di una nuova orda adolescenziale che ha riposto le spranghe e gli slogan di piazza, e ha preso in mano il telecomando sintonizzandosi su Drive-In. Si cerca il disimpegno, si coniano neologismi, ci si veste e si seguono le mode, il mito del successo e del dio denaro diventa una costante. E i Vanzina fotografano questo nuovo scenario con consapevolezza autoriale, tratteggiano figure e figurine che restano impresse nella memoria, impongono volti e modi di dire e, last but not least, fanno immensamente ridere, divenendo i re incontrastati di una nuova commedia che si discosta dai “malincomici”, dai grandi della passata “commedia all’italiana” e, soprattutto, dalla comeddiaccia becera e grossolana delle ripetenti, delle insegnanti, delle liceali e dei Pierini alvarovitaliani.

Nell’arco di una carriera che prosegue indefessa fino ad oggi, malgrado la dipartita di Carlo Vanzina, e malgrado alti (Le finte bionde) e bassi (A spasso nel tempoIl ritorno del Monnezza), se non bassissimi risultati (Lockdown all’italiana), il duo romano ha provato anche a cimentarsi con altri generi, andando a lambire le sponde del “giallo” in più di un’occasione.

Ci hanno provato con Mystère (1983), strano pastrocchio spionistico costruito sulle grazie di Carol Bouquet, con l’ansiogeno ma irrisolto Tre colonne in cronaca (1990), con il pessimo Squillo (1996) tirato su in fretta e furia per sfruttare l’astro nascente della meteora Raz – son fatti miei – Degan, e con il seguito, invedibile, di Sotto il vestito niente, ovvero quel Sotto il vestito niente – L’ultima sfilata che cercò di riproporre la matrice originale fallendo su tutta la linea, anche e soprattutto per colpa di un parco attori senza arte né parte.

Eppure, quando Carlo alla regia ed Enrico alla sceneggiatura tirano fuori dal cilindro, in quel freddo inverno del 1985, Sotto il vestito niente non si può che restarne ammirati, riconoscendogli tenuta registica, grande senso degli spazi e degli scorci urbani, e una sapiente miscela di elementi da thriller classico e derivazioni quasi paranormali.

Siamo a Milano. Una Milano che viene dipinta con pennellate avveniristiche, una Milano motore trainante del paese che sembra una città “altra” rispetto agli altri capoluoghi dello Stivale. Ma, soprattutto, una città modernissima, fashion, algida e glaciale, lontana anni luce da quella Capitale romana, sonnacchiosa e bonaria, fancazzista e indolente, che impazza sugli schermi (e di cui Alberto Sordi e Carlo Verdone sono bandiere portanti).

Nella capitale meneghina si corre, si stringono affari, si fa il business, si guarda al futuro. Soprattutto nel campo della moda: siamo in pieno boom Vogue Style e i nuovi simboli del successo sono anche quelle enigmatiche silhouette, quelle mannequin, quelle modelle/donne/bambine che sfilano sulle passerelle, che ammiccano e ci guardano dalle pagine dei rotocalchi e dalle gigantografie affisse sulle strade, che ci seducono furtive sprigionando sesso, sesso e ancora sesso. Splendide creature che nel film dei Vanzina però muoiono, cadono come mosche, dilaniate dalle forbici rilucenti di un maniaco che ha scoperchiato i traumi del passato e ora si erge a nuovo inquietante inquisitore.

Tra quelle passate a navigare nell’Ade troviamo anche Nicole Perrin. È scomparsa, nessuno sa che fine abbia fatto, nessuno sa dove possa essere andata. Ma qualcosa di strano deve essere successo. Non lo pensa solo l’ispettore che sta seguendo il caso (Donald Pleasence) ma anche il fratello gemello della vanished girl, ranger in quel di Yellowstone che, come spesso avviene fra chi ha vissuto nella stessa sacca materna, avverte il pericolo, sente sulla propria pelle che la situazione non quadra. E allora lascia orsi e marmotte e si catapulta all’ombra della Madunina per capirci qualcosa e finisce dritto nel mondo dell’alta moda e negli occhi da gatta di Renée Simonsen, forse uno dei più bei corpi e volti di tutti gli anni ’80, nonché compagna, nella vita reale, di sua maestà Simon – Duran Duran – Le Bon.

Mentre i cadaveri si susseguono e la musica di Pino Donaggio impazza (lo stesso score venne utilizzato da Brian De Palma l’anno prima in Omicidio a luci rosse, ma nessuno sembrò farci caso) il nostro eroe entrerà a contatto con la ferocia edonistica di un mondo mellifluo e tentacolare. E farà i conti, in uno dei finali più disturbanti del nostro cinema, con la follia di una mente perversa.

Bisogna fare i conti con Sotto il vestito niente, con la sua modernità, con la sua lungimirante visione. I Vanzina in quel periodo bazzicano Milano più di Roma e la scandagliano, oltre che sul versante thriller, anche in quello della risata (si veda Yuppies che, volenti o nolenti, ha segnato un’epoca, ha dato forma ad un modus vivendi super cool che resterà negli annali di sociologia) e del dramma fotoromanzato (Via Montenapoleone, questo veramente capolavoro di bruttezza da olimpo del trash, tutto girato per immortalare la borghesia spocchiosa, vanitosa e irritante dell’heart of the city meneghino). 

Così come bisogna fare i conti con la sua geniale (sì, geniale) unione di erotismo patinato, cronaca nera, stilemi argentiani (l’assassino obliquo e nero guantato) e depalmiani (il tema del doppio, qui declinato in chiave gemini, in cui si riverberano echi di Le due sorelleFury, e ovviamente Omicidio a luci rosse). Con la sua ossessione vertiginosa per gli skyline, per la notte e per un mondo che non dorme mai, per la musica trendy che accompagna le immagini (splendida con il suo vorticoso refrain One in Night in Bangkok di Murray Head), per provare, forse unico caso nel cinema italiano di quegli anni, a voler dare vita ad un film europeo, a dare in pasto al pubblico l’immagine di un Paese finalmente traghettato verso il futuro e non più subombelicale.

Un piccolo grande film che, è ora di ammetterlo una volta per tutte, sotto il vestito aveva molto più di niente.

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