I romanzi d’appendice ottocenteschi (e successivi) abbondano e traboccano di personaggi fissi e stereotipati, configurandosi quasi come una sorta di versione melodrammatica della commedia scollacciata e boccaccesca. Del resto, il gusto popolare ha da sempre mostrato una particolare inclinazione verso le maschere, tanto quelle comiche quanto quelle tragiche, e i feuilleton, che di un certo tipo di intrattenimento su larga scala sono il vero e proprio prototipo, nati insieme – e in conseguenza – alla società industriale, di maschere e tipi fissi ne hanno prodotti a iosa.
Alcuni di questi hanno avuto particolare fortuna, venendo riproposti a getto continuo e pressoché in tutte le sale. È il caso del personaggio del ricco avaro, crudele e senza cuore, sordo e refrattario al più elementare gesto di umanità, la cui versione più celebre è lo Scrooge del Canto di Natale di Dickens (che del romanzo d’appendice è la versione nobile, intellettuale e raffinata).
Quasi inevitabile che il cinema delle origini, affermatosi come intrattenimento popolare per eccellenza, per le sue prime prove narrative andasse a pescare a piene mani nei soggetti dei romanzi d’appendice, adattandoli e riducendoli per lo schermo ma mantenendone intatti atmosfere, situazioni e personaggi.
Il genio di Charlie Chaplin, che va affermandosi prima con una serie di corti sul genere slapstick via via sempre più elaborati e complessi e poi, a partire dagli anni Venti, con lungometraggi a dir poco leggendari, all’universo narrativo del feuilleton, specie nel periodo di passaggio tra le pellicole brevi e quelle lunghe (si pensi, su tutti, al Monello) non è del tutto estraneo. E certe atmosfere “alla Dickens” (si prenda ancora Il Monello come principale riferimento) ritornano in molte celebri avventure del Piccolo Vagabondo.
Ma, come ogni grande artista, anche Chaplin usa gli stereotipi di genere in maniera critica, ribaltandoli e reinventandoli. Come succede, per l’appunto, al personaggio del ricco senza cuore, elemento fondamentale di quel capolavoro assoluto che è Luci della città.
Scritto, diretto e interpretato (e musicato) da Chaplin nel 1931, non è soltanto una pietra miliare della sua fantasmagorica filmografia e dell’intera storia del cinema, ma contiene anche una serie di elementi specifici che lo rendono ancora più unico. Su tutti, il fatto che si tratta di un film muto realizzato nel momento in cui il sonoro ha già trionfato in tutto il mondo imponendo una nuova grammatica filmica. È quasi una sfida, quella di Chaplin, dimostrare la superiorità, o comunque la possibilità del muto quando l’intero show business lo considera pura archeologia, puro reperto del passato. Nonché, soprattutto, l’esigenza di tenere in vita il personaggio del Vagabondo che, secondo Chaplin, poteva esistere solo nella dimensione del muto.
Il plot del film infatti, come spesso accade in Chaplin, ruota attorno a un gigantesco equivoco. In questo caso, troviamo una povera fioraia cieca che scambia il Vagabondo per un miliardario. L’espediente alla base del malinteso è a dir poco geniale, ovvero non è soltanto la cecità della ragazza a rendere possibile lo scambio di persona, ma a essere decisivo è il rumore della portiera di una Rolls-Royce che lei sente sbattere proprio mentre il Vagabondo le passa davanti. In buona sostanza, si tratta di un espediente tanto funzionale alla trama quanto metacinematografico, vale a dire una straordinaria risposta di Chaplin su come anche il muto fosse in grado di creare, far proprio “sentire” il rumore.
Ma se, per l’appunto, il Piccolo Vagabondo si trova suo malgrado a interpretare il ruolo del finto miliardario, ecco subito dopo irrompere nella sua vita, come una furia, un miliardario vero e proprio. Che sarebbe proprio quel ricco sfondato senza cuore né sentimenti tanto caro alla tradizione dei lacrimevoli drammi d’appendice. Condizionale d’obbligo, perché Charlie Chaplin reinventa quella maschera nella più originale delle maniere. Il ricco infatti è buono, socievole, generoso. Per sdebitarsi con il Vagabondo lo abbraccia di continuo, offrendogli da bere, gli regala denari, paga per lui tutti i fiori della ragazza.
Ma non è altro che un’illusione. La bontà del miliardario è infatti dovuta solo al fatto che è completamente sbronzo. Appena torna sobrio, diventa freddo, cattivo, indifferente e caccia il Vagabondo nella peggiore delle maniere. Un ribaltamento totale per cui lo stato di alterazione rende il ricco “normale”. Come a dire che la disumanità, la mancanza di empatia e di generosità sono le vere e uniche storture, e ciò che la morale comune ritiene essere stortura, qui simboleggiata dall’ubriachezza, è in realtà la strada per tirare fuori la nostra parte migliore.
L’oscillare del ricco tra sobrietà e ubriachezza, e quindi tra malvagità e bontà, è il perno di tutta la dinamica narrativa del film, compreso il celeberrimo, indimenticabile e struggente finale: il Vagabondo sfrutta un momento di urbiachezza del miliardario per ottenere i soldi necessari per la complicata operazione agli occhi che potrebbe ridare la vista alla fioraia, ben sapendo che quando tornerà sobrio rivorrà indietro quei soldi e, non trovandoli, lo denuncerà. Cosa che puntualmente accade. Uscito di prigione ancora più malconcio e miserabile, passa per caso davanti al bel negozio di fiori aperto dalla ragazza dopo aver riacquistato la vista. Lei ovviamente non può riconoscerlo, ma quando in un gesto di pietà gli consegna una moneta, accarezzandolo, capisce ogni cosa.
Un film sull’importanza di essere umani e di restarci contro ogni stortura e contro ogni abbrutimento, commovente e splendido senza troppo altro da aggiungere, diventato, giustamente e come già ricordato, una delle più importanti pietre miliari della storia del cinema.
Nell’ordine naturale delle cose, è il cinema a prendere in prestito trame e intrecci dai romanzi e dalla drammaturgia teatrale, adattandoli e modificandoli a proprio piacimento e secondo i propri canoni espressivi.
Ma vi sono rarissimi casi in cui accade il contrario, ovvero che sono scene, sequenze e trame dei film a essere riadattati per altri linguaggi narrativi. Luci della città è una di queste meravigliose eccezioni.
Appena sette anni dopo l’uscita nelle sale, nel 1940, il geniale espediente del miliardario sbronzo fu ripreso da Bertolt Brecht – in quel tempo in fuga dalla Germania hitleriana e rifugiato in Finlandia – che ne fece la base di uno dei suoi maggiori lavori teatrali: Il signor Puntila e il suo servo Matti.
In quest’opera dai toni solo apparentemente più leggeri di altri capolavori brechtiani (Madre Courage e i suoi figli, Vita di Galileo, L’opera da tre soldi, tanto per fare alcuni esempi), come nella migliore tradizione del drammaturgo tedesco scandita in dodici quadri dal rigoroso andamento epico e con tanto di cartelli esplicativi, musicata ovviamente da Kurt Weill, si narrano le avventure di un ricchissimo proprietario terriero finlandese, Puntila, feroce, spietato e senza scrupoli, che però sotto l’effetto della grappa diventa di colpo generoso, illuminato e umanissimo. A farne le spese è soprattutto il suo autista, Matti, che senza soluzione di continuità o viene maltrattato e accusato, oppure, quando appunto il padrone è sbronzo, viene trattato alla stregua di un principe, arrivando anche a essere scelto come marito di Eva, la figlia di Puntila.
Ma se la ripresa – se non direttamente la riproduzione – delle gag chapliniane è evidente, cambia completamente il loro utilizzo, al punto che l’impianto drammaturgico delle due opere finisce per essere radicalmente diverso, così come profondamente differente era l’universo artistico, esistenziale e ideologico dei due grandissimi artisti.
L’interesse di Chaplin, come evidenziato in precedenza, è tutto umanitario. L’attacco al mondo materiale del denaro, alla spersonalizzazione selvaggia dettata dalla logica della produzione e dell’accumulo (che si definirà in maniera ancora più netta e radicale nel successivo Tempi moderni), non ha una connotazione ideologica o politica, ma si configura come una sorta di umanesimo universale come antidoto alla barbarie dell’omologazione, come difesa dell’autenticità dei sentimenti e, soprattutto, dell’individuo e della sua libertà. L’ingenuità del Piccolo Vagabondo è non solo poesia, ma anarchia pura, grido libertario contro la brutalità del materialismo, irriducibilità alla massificazione. Egli non si ribella ma, come Perelà, l’omino di fumo nato dalla fantasia di Aldo Palazzeschi, è ribellione congenita, legata al suo stesso essere. È il suo modo di camminare, di guardare, di sorridere a essere ribelle. In questo senso la sequenza iniziale – la celebre inaugurazione della statua che appena scoperta rivela il Piccolo Vagabondo addormentato sui marmi, poi inseguito dalle forze dell’ordine – non è una semplice gag, ma un manifesto di poetica libertaria, tutt’altro che slegato dal resto del film.
Nel discorso di Brecht invece tutto è funzionale alla lettura marxista della società. La dialettica tra Puntila e Matti è quella classica tra servo e padrone, e quindi svolta nell’ottica del conflitto di classe. Puntila è l’incarnazione della ferocia capitalista, e le sue sbronze, a differenza di quanto accadeva nel miliardario di Chaplin, non ne svelano il lato “buono”, ma, al di là dell’innegabile comicità che scaturisce da certe scene, ne accentuano la mostruosità dispotica, la natura imprevedibile e ingannatrice. Non a caso il personaggio di Brecht, a differenza di quello di Chaplin, è totalmente ideologizzato, vale a dire che tanto nelle sbronze quanto nelle sobrietà non manca mai di parlare delle classi subalterne, dei lavoratori, ora elogiandoli ora disprezzandoli.
Ma la questione della lotta di classe è ancora più evidente nel personaggio di Matti. Egli non ha nulla della poesia stranita e irresistibile del Piccolo Vagabondo. Al contrario, è un proletario con piena coscienza di classe, completamente consapevole della propria condizione di subalternità e per questo del tutto ostile al proprio padrone. Il Piccolo Vagabondo si fa trascinare nelle scorribande del miliardario, accetta i suoi soldi e la sua generosità ubriaca. Matti non accetta mai niente da Puntila, marca le distanze, non partecipa in alcun modo alla sua tracotanza alcolica, lo critica, lo contesta, dichiara continuamente il suo disprezzo. E non cede nemmeno alla avances della bella e procace Eva, la figlia di Puntila.
Il legame che pure unisce i due personaggi, in Brecht, non ha nulla di umano, ma risponde a quella inevitabile dipendenza hegeliana servo/padrone riproposta in ottica di scontro di classe da Marx.
Inevitabilmente, è invecchiato meglio il film di Chaplin.
Anzi, il capolavoro di Chaplin non è invecchiato per niente, e ancora oggi arriva in tutta la sua potenza dirompente ed eversiva, irresistibile e travolgente. Per forza di cose, l’ultra ideologia che sta alla base del lavoro di Brecht lo rende, oggi, più datato e farraginoso. Ma solo in parte. Al di là delle rigidità ideologiche anche Il signor Puntila e il suo servo Matti resta un capolavoro intriso di poesia.
E i capolavori, anche quando sopra ci si depositano fastidiosi strati di polvere, non smettono mai di parlare una lingua viva.
Che continua a chiederci, ancora oggi e soprattutto oggi, di essere umani e restare umani.
Alla salute!
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