Nel 1948 Graham Greene era già un autore riconosciuto con diversi libri al suo attivo, da alcuni dei quali furono successi cinematografici come Idolo infranto (The Fallen Idol), diretto da Carol Reed e uscito in Gran Bretagna alla fine dell’anno. Da parte sua il produttore Alexander Korda aveva in tasca un accordo di collaborazione firmato con David O. Selznick per la co-produzione di quattro film (e di cui alla fine ne verranno prodotti solo due) tra cui il contratto stipulato per Greene che prevedeva “una storia continentale originale del dopoguerra che sarà basata su uno o entrambi i seguenti territori: Vienna, Roma”. Gli interessi di Korda e di Greene convergono nella direzione della prima: entrambi avevano buone ragioni per scegliere Vienna…

Nato Sándor László Kellner da una famiglia ebrea ungherese nel 1893, Alexander Korda iniziò a scrivere sceneggiature nel 1914 e passò alla regia durante la prima guerra mondiale. In seguito si trasferì a Vienna e lavorò con il conte Alexander Kolowrat, fondatore della Sascha Films, per poi accettare l’irresistibile chiamata dell’UFA e recarsi a Berlino. La sua carriera assunse una dimensione globale che lo portò a Hollywood e Parigi che tuttavia lo lasciò insoddisfatto: alla fine si stabilì a Londra dove creò la sua compagnia, la London Film Productions. Fu il primo uomo del cinema ad essere nominato Cavaliere per il suo sostegno allo sforzo bellico attraverso le sue produzioni, nel settembre 1942. Ma sotto la copertura della sua attività, prestò servizio nei Servizi Segreti grazie ai suoi contatti in Europa e soprattutto in Austria-Ungheria. Prima della Seconda Guerra Mondiale, Korda si era unito al controverso produttore Karl Hartl, che rilevò la Sascha Films e i cui studi Sievering sarebbero stati un punto di riferimento per la squadra di Carol Reed (il regista che avrebbe realizzato Il terzo uomo), ma anche una comoda copertura per le attività di Korda.

Graham Greene arrivò a Vienna per ispirarsi nelle ambientazioni del suo romanzo nel febbraio 1948, ma le persone che incontrò nella capitale austriaca non gli erano del tutte estranee. C’è chi ha ipotizzato che “terzo uomo” sia il nome in codice di Kim Philby, che Greene conosceva da Londra: i due lavorarono insieme come redattori del Times e divennero amici nel 1943 quando entrambi prestavano servizio come agenti segreti. Come il protagonista del libro Harry Lime, Philby conduce una doppia vita con qualche principio e pochi scrupoli. Ci sono sorprendenti somiglianze tra le attività di Philby e quelle descritte nella storia, sebbene lo spionaggio non venga mai menzionato apertamente da Greene. Ad esempio, in un episodio che vide protagonista i socialdemocratici che Philby sosteneva all’inizio degli anni ’30 contro le Heimwehr del cancelliere Dolfuss, i militanti sfuggirono agli inseguitori utilizzando la rete di canali fognari sotterranei: vi ricorda qualcosa?

Peter Smolka era invece nella realtà un agente sovietico implicato in un doppio gioco che gli valse la cittadinanza britannica. Greene affermava di aver fatto la sua conoscenza a Vienna, mentre in realtà i due erano in stretti rapporti fin dalla fine degli anni ’30. Smolka sembra avere un ruolo chiave nella stesura perché sembra aver fornito1 nel corso di una conversazione avuta con l’autore lo spunto di una storia riguardante un uomo misterioso che gestiva un’attività al mercato nero con penicillina diluita. Per questo ruolo chiave, Smolka viene ricompensato con un’innocua menzione del suo nome nel romanzo.

Greene ha volutamente cancellato nel suo racconto gli aspetti relativi allo spionaggio e Lime appare come un opportunista animato dall’avidità: da brava (ex) spia, Greene nasconde dietro una cortina di fumo le sue fonti di informazione e fa de Il terzo uomo un thriller e non un romanzo di spionaggio. Caratterizzato da un’ambientazione decisamente britannica a fronte di una presenza molto debole degli americani – relegati a personaggi secondari – il libro servì da plot per la realizzazione del film. Fu proprio la produzione hollywoodiana a insistere per imporre, in conformità del contratto e per ovvi motivi di liquidità, gli attori americani Joseph Cotten e Orson Welles, facendo così evolvere i personaggi, cosa che non avvenne senza attriti con gli autori criticati per aver reso Martins un eroe poco attraente per il pubblico d’oltre Atlantico allora in attesa dell’affermazione del potere militare e ideologico degli Stati Uniti.

Il passaggio dal contesto britannico a quello americano con tutta probabilità non dispiacque certo a Greene (e Korda), che vide così ancora meglio nascoste le sue attività parallele. Insomma, lo scrittore riuscì a realizzare nel migliore dei modi il lavoro, rendendolo funzionale ai suoi obiettivi. Una sola cosa non riuscì a prevedere: che la frase universalmente più nota del film non sarebbe stata scritta da lui. Resterebbe deluso infatti chiunque cerchi nel libro di Greene la famosa battuta sugli orologi a cucù e il Rinascimento italiano…quella è frutto del genio di Welles!

1 Brigitte Timmermann and Frederick Baker, Der dritte Mann: Auf den Spuren eines Filmklassikers (Vienna: Czernin, 2002)

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