A giudicare dagli indizi offerti da L’Istituto per la Regolazione degli Orologi e da Serenità – i due romanzi sono stati entrambi pubblicati da Einaudi nella collana Letture – è difficile non concordare con il giudizio di Orhan Pamuk che ha definito Ahmet Hamdi Tanpinar (1901-62) il più grande romanziere turco del XX secolo. Nato ed educato nell’antico impero ottomano, Tanpinar fu senza ombra di dubbio un grande artista e pensatore, capace di esercitare una forte influenza sulla successiva letteratura del suo Paese. Eppure i lettori italiani devono fidarsi del giudizio di Pamuk sia per la scarsità delle traduzioni di letteratura turca del XX secolo sia per la poca conoscenza del contesto storico, che vide la riorganizzazione dell’Impero Ottomano voluta negli anni ’20 da Mustafa Kemal (meglio noto come Atatürk): dall’alfabeto al copricapo, dall’onomastica alla religione, tutta la cultura è stata oggetto della modernizzazione in stile europeo promossa dal padre della Turchia moderna.
Cresciuto con la musica e la poesia ottomana che l’ingegneria culturale di Atatürk ha reso inaccessibili alle generazioni successive, Tanpinar sembra aver riconosciuto che la nuova Repubblica non poteva essere una tabula rasa e sperava in una sintesi tra passato e presente che andasse oltre gli slogan laici e i piani statali di modernizzazione. Nelle sue opere lo scrittore manifestava l’angoscia di chi arriva tardi nel mondo moderno, come un alunno ingenuo, per trovare il proprio futuro precluso e già definito dalle idee degli altri. Tra le sue pagine affiora il senso di presentimento e di perdita, e la sua evocazione, in particolare, della malinconia di coloro che sono condannati ad arrivare in ritardo nella storia richiede empatia con il trauma dei testimoni della devastazione dei loro punti di riferimento familiari.
Atatürk
In L’Istituto per la Regolazione degli Orologi – pubblicato nel 1962 ma ambientato tra il primo Novecento e gli anni Cinquanta – la continuità tra passato e presente sognata da Tanpinar non sembra più possibile. La narrazione del progresso in avanti e verso l’alto, dettata dallo Stato e abbracciata da un popolo ingenuo, ha contaminato tutto. Le risorse spirituali del modernismo sembrano scarse rispetto ai grandi e irreversibili cambiamenti materiali – industrializzazione, meccanizzazione, cambiamenti demografici, consumismo della classe media e comunicazioni rapide – introdotti dall’élite kemalista turca.Il narratore del romanzo, Hayri Irdal, è uno di quegli uomini apparentemente moderni e superflui che ci sono familiari dalla letteratura russa: un semi-inetto ribollente di risentimenti e rimpianti in balia della confusione in quasi tutto ciò che fa.
Le intenzioni satiriche di Tanpinar in questo romanzo prendono spunto dal fatto che nel 1926 Atatürk aveva formalmente adottato l’ora occidentale approvando la legge sul calendario gregoriano. Fino a quel momento, la maggior parte delle persone in Turchia non aveva bisogno di conoscere l’ora con la precisione offerta dagli orologi, bastando loro il richiamo del muezzin alla preghiera o la posizione del sole. Ma Atatürk decretò che in tutto il paese venissero erette torri di orologi che propagandavano regolarità, costanza, puntualità e precisione, conferendo alla giornata lavorativa maggiore produttività economica e valore monetario. Il protagonista Irdal però è il rappresentante di un altro tipo di vita in cui l’ozio, o la perdita di tempo, è fonte di felicità: Irdal contrappone i facili lussi e le soddisfazioni della sua infanzia con le liberazioni individuali promesse dallo stato moderno e fa risalire la fine del suo Eden personale al momento in cui gli viene regalato un orologio: «I ritmi della mia vita furono sconvolti, a quanto pare, dall’orologio che mi regalò mio zio in occasione della mia circoncisione». Da quel momento in poi, è un cittadino della Turchia moderna, in cui ci si aspetta che faccia la sua parte come produttore e consumatore individuale per rafforzare il potere collettivo.
Tanpinar usa Irdal per prendere di mira molti aspetti della Turchia kemalista ma la sua critica è più corrosiva perché più universale: Tanpinar sostenne l’esperienza vissuta della vita ordinaria contro le astrazioni disumanizzanti e le vuote promesse delle ideologie moderne, ponendosi dalla parte del frammentario e del gratuito contro gli imperativi della storia e del progresso. Una rivendicazione in qualche modo collegata alla questione della libertà umana, uno dei temi che più preoccupava lo scrittore, come rivela un passaggio del libro che considero emblematico. “Il privilegio a cui tenevo di più da bambino era quello della libertà […] Oggi usiamo la parola solo nel suo senso politico, e quanto è sfortunato per noi. Temo infatti che coloro che vedono la libertà esclusivamente come un concetto politico non ne coglieranno mai appieno il significato. La ricerca politica della libertà può portare al suo sradicamento su larga scala – o meglio, apre la porta a innumerevoli limitazioni”: spetta a ciascuno di noi stabilire quanto sia corretta questa riflessione di Irdal a più di sessant’anni dalla pubblicazione del libro…
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