In nome del popolo italiano (1971) si presta a una rilettura critica che lo collochi in maniera appropriata all’interno della filmografia di Ugo Tognazzi, evidenziandone i molti elementi di continuità con gli altri lavori dell’attore cremonese. Sebbene non si tratti di una delle prove più celebri di Tognazzi, il film favorisce uno sguardo complessivo alla produzione di un’artista che possa essere efficace e scevro di pregiudizi, sottraendosi in questo all’agiografia. A mio avviso infatti il livello e la bravura di un attore sono misurabili in modo migliore dall’analisi delle performance cosiddette “minori” che da quelle fornite in stato di grazia.
Ma In nome del popolo italiano è davvero un film minore? Per rispondere è necessario inserirlo nel contesto di quegli anni e nelle produzioni complessive dei suoi artefici, che oggi possiamo valutare nella loro compiutezza. La storia racconta l’indagine condotta dal giudice Mariano Bonifazi (interpretato da Tognazzi) per determinare le cause della morte di una studentessa. Le sue ricerche lo portano presto a incrociare la strada di un ricco faccendiere – l’ingegner Lorenzo Santenocito (Gassman) – che era solito far prostituire la vittima per rendere più malleabili i suoi interlocutori in affari. Dopo aver a lungo scavato nel sottobosco di varia umanità in cui si muoveva la ragazza, Bonifazi giunge in possesso dei suoi diari. Nei quaderni, la morta confessa la sua volontà di suicidarsi ma, anziché scagionare definitivamente Santenocito, il giudice decide di distruggere le prove per imprigionare l’ingegnere e far di lui il capro espiatorio delle colpe della società che ha spinto la giovane alla disperazione.
All’epoca della realizzazione del film Dino Risi aveva più di cinquant’anni e – potremmo dire – più passato che futuro. Con il senno di poi, possiamo affermare che era già trascorso il suo periodo d’oro, caratterizzato da grandi successi commerciali: sono infatti sicuramente film come Pane, amore e… (1955), Poveri ma belli (1956), Il vedovo (1959), Una vita difficile (1961), Il sorpasso (1962), Vedo nudo (1969) ad aver collocato il regista romano nel gotha della commedia all’italiana, senza nulla togliere alle opere – in alcuni casi importanti – dirette nel corso dei Settanta e degli Ottanta. Al successo di Risi hanno collaborato in maniera determinante i volti più noti della commedia all’italiana. Il regista romano ha infatti diretto tutti i cosiddetti “cinque moschettieri”, seppur con frequenza e fortuna diverse, e Tognazzi ha giocato un ruolo di primissimo piano all’interno della sua filmografia: le loro strade si incroceranno ben 12 volte, abbracciando oltre vent’anni di carriera.
Per Risi più che per qualsiasi altro, Tognazzi ha saputo fornire un campionario vasto e rappresentativo. Per nessuno – neanche per Ferreri, sicuramente più importante dal punto di vista artistico, o per Salce e Monicelli, gli altri cineasti in qualche modo paragonabili a Risi e determinanti per la sua fortuna – l’attore cremonese ha dato vita a personaggi così fortemente paradigmatici della sua carriera. Dal contadino testone de La grande guerra (1962) al surreale sordomuto di Straziami, ma di baci saziami (1968) fino al laido gobbaccio di Telefoni bianchi (1976), all’ambiguo avvocato reduce di guerra di La stanza del Vescovo (1977) o al crepuscolare attore di avanspettacolo di Primo amore (1978), la galleria è un compendio delle sue capacità, perfino nelle prove trascurabili.
Che fosse frutto o no di una particolare intesa con il regista – “lo sentivo affine, mi capitava di vederlo volentieri anche fuori dal lavoro: era un ospite eccezionale, era sempre pronto a farsi in quattro per gli amici”1 – resta indiscutibile la varietà dei registri, che trova la sua summa ne I mostri (1963). Eppure Tognazzi riesce a mantenersi fedele a sé stesso ed è evidente come i personaggi risiani si inseriscano con coerenza nella sua filmografia.
Un tratto peculiare del giudice Bonifazi è quello di incarnare allo stesso tempo due poli opposti di una stessa dialettica. Una caratteristica oscillazione che l’attore, forse più di tutti gli altri colleghi protagonisti della grande stagione della commedia all’italiana, ha saputo rappresentare. Se infatti è inevitabile che una struttura narrativa come si deve assegni le parti del protagonista e dell’antagonista, non è così comune assistere ad un ribaltamento totale del destino dello stesso personaggio come quello che porta Bonifazi a vestire prima i panni della vittima (del sistema corrotto e truffaldino che Santenocito alimenta e da cui è sostenuto) e poi del carnefice.
Un capovolgimento del destino comune a tanti volti di Tognazzi: dal marito fedifrago e poi cornuto di Pietrangeli (Il magnifico cornuto, 1964), al ribelle bombarolo di Lizzani che finisce assunto dai padroni che voleva far saltare in aria (La vita agra, 1964), fino al cinico e ateo barone di Avati redento da una puttana trasfigurata in santa (La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, 1975) e via discorrendo ed elencando – passando attraverso parti più drammatiche come quella dell’imbroglione spavaldo e sicuro di sé de La donna scimmia (1964), lasciato solo con la sua disperazione. Perfino la virilità viene spesso ribaltata e, da sinonimo di potenza e dominio, trasformata in strumento di sottomissione del maschio ne L’ape regina (1963) di Ferreri ma anche – in una certa misura – ne L’immorale (1967) di Germi…
Analizzando invece i tratti più esteriori del protagonista, osserviamo come richiami da vicino altre celebri interpretazioni e offra lo spunto per delineare la connotazione del funzionario. A cavallo tra gli anni ’60 e ’70, i temi “politici” iniziano a occupare prepotentemente i cinema italiani grazie a una vasta produzione in cui non mancano i lavori di qualità. Marco Bellocchio, Francesco Rosi ed Elio Petri sono i principali alfieri dell’impegno sociale e gli autori (giustamente) più celebrati dei film di denuncia (uno su tutti: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, premiato con l’Oscar come miglior film straniero nel 1971). Ma insieme a loro, anche cineasti solitamente impegnati su altri registri – pensiamo al Loy di Detenuto in attesa di giudizio (1971), al Salce de Il sindacalista (1972), al Monicelli di Vogliamo i colonnelli (1973) – si cimentano con queste tematiche legate all’attualità e segno del mutamento dei tempi e delle sue paure.
Insieme a operai, sindacalisti, militari nostalgici, quello del burocrate è un personaggio sempre più comune delle pellicole di quegli anni. Un ruolo che Tognazzi ha già interpretato e che ha bene in mente come caratterizzare. Per lui l’uomo di potere ha una postura rigida, austera, in alcuni casi accentuata da tratti nevrotici – come il cattolico e moralista boiardo di stato de Il complesso della schiava nubiana (1965) del film I complessi o Ugo La Strizza, personaggio secondario ma determinante di Stanza 17-17 palazzo delle tasse, ufficio imposte (1971). Il potere, insomma, per Tognazzi sembra essere innanzitutto capacità di autocontrollo anche quando ha il volto tutt’altro che rassicurante del cardinal Rivarola de Nell’anno del Signore (1969) o quello quasi feroce di Aureliano Diaz ne L’udienza (1972).
Nemmeno Bonifazi si sottrae a questa regola, nonostante in alcune sequenze chiave siano visibili gli sforzi per contenere il suo sdegno, la sua rabbia. A mio avviso l’adozione di questo modello non risponde solo ad esigenze di copione ma anche a una precisa volontà da parte dell’attore che ricordiamo, nella sua lunga carriera, ha saputo con facilità costruire e rendere credibili personaggi diametralmente opposti eccessivi, grotteschi, esibizionisti, quando non “protagonisti di veri e propri momenti di esagitazione corporea”2.
Lo stesso Tognazzi rivela come “di fronte al compiacimento del difetto, l’arrangiarsi e la grande furberia che erano le caratteristiche dei personaggi di Sordi per esempio, io contrapponevo una ricerca personale ma che mi era in un certo senso “consegnata” attraverso le sceneggiature su un personaggio a volte sprovveduto, anche cinico, materialista e in certi casi persino volgare, se vogliamo, ma che all’interno delle storie ha sempre avuto da parte mia non una giustificazione ma piuttosto un momento di attenzione psicologica. Nei miei personaggi non c’è un reale pentimento ma c’è la desolazione, la disperazione in certi casi, e comunque un rimanere attonito di fronte alla manifestazione dei propri difetti”3.
Un determinante contributo diretto ravvisabile anche nel plateale atto conclusivo di bruciare le prove raccolte, lo stesso compiuto un paio di anni prima ne Il commissario Pepe (1969). Non può essere un caso che il protagonista del film di Scola – antesignano diretto del Bonifazi di Risi – compia l’identico gesto, che però conduce a esiti opposti: là sinonimo di accettazione di fronte all’impossibilità di combattere la corruzione, qui aperta ribellione al suo ruolo di “difensore di leggi che proteggono una società che fa schifo”. Una significativa differenza figlia del mutato clima sociale: In nome del popolo italiano è stato realizzato in un periodo di “radicata diffidenza per le istituzioni e di una cultura del sospetto verso lo Stato che in quel decennio (i Settanta, ndr), sulla scia degli attentati e delle stragi, andava inevitabilmente radicalizzandosi”4.
Ne In nome del popolo italiano la scelta di una recitazione impostata e minimalista si rivela efficacissima anche come contraltare a quella di Vittorio Gassman, l’altro grande protagonista. Il suo Lorenzo Santenocito è tanto al di sopra delle righe, arrogante, sbruffone e spavaldo, quanto il giudice è sommesso, misurato, composto. “Ai due attori è richiesta una caratterizzazione particolarmente specifica, e un lavoro opposto a livello di performance: la postura composta e rigida di Tognazzi, spesso in silenzio, fa il paio con quella movimentata di Gassman, a cui è dato il compito di parlare, spiegarsi, gesticolare, difendersi”5.
Ancora una volta del contrasto tra i due diversi stili ne beneficia il film. I due amici-colleghi hanno formato una coppia grande artefice delle fortune di Risi. Già La marcia su Roma (1962) aveva dimostrato come l’assortimento risultasse particolarmente felice, ma è con I mostri (1963) che raggiunge l’apice. Una collaborazione fertile – alimentata anche da una certa rivalità, come ha ricordato più volte lo stesso Risi”6 – che proprio nell’opera in esame raggiunge a mio avviso il suo equilibrio più compiuto.
Un equilibrio favorito dalla particolare congiuntura temporale, legata soprattutto all’acquisita consapevolezza da parte di Tognazzi di giocarsela “alla pari” con il Mattatore del nostro cinema. Per quanto riusciti e di successo, nei due precedenti appena ricordati era ancora evidente quasi un senso di deferenza – non diremmo di inferiorità – di Tognazzi nei confronti del collega, sicuramente più blasonato e introdotto nel cinema a inizio degli anni Sessanta. In nome del popolo italiano è il primo confronto ravvicinato tra i due giganti posti sullo stesso livello, dopo l’irresistibile ascesa del cremonese nel decennio precedente.
Nel raggiungimento di questa misura, il contributo di Age e Scarpelli risulta imprescindibile. I due costruiscono una solida sceneggiatura dai toni discorsivi – né troppo seriosi, né troppo superficiali – in grado di soddisfare anche il pubblico più esigente. Le contrapposizioni dei due protagonisti si scontrano e le loro contraddizioni si alimentano a vicenda portando progressivamente, come abbiamo visto, a un ribaltamento dei ruoli: lo spettatore finisce per solidarizzare con il cattivo, “vittima” dell’arbitraria condanna del rappresentante della giustizia. In mezzo, la scrittura essenziale e asciutta di Age e Scarpelli anima con gusto preciso una teoria di personaggi secondari riuscitissimi che virano spesso verso toni drammatici: il vecchio padre rinnegato da Santenocito e portato in manicomio e la vittima che scrive sul diario la cronaca della sua vita (”i’m a bitch”) sono sicuramente gli esempi più felici della loro capacità di caratterizzazione.
Ma quindi, per tornare all’interrogativo iniziale di questo intervento, siamo davanti a un film “minore”? in conclusione, si può dire di sì. In nome del popolo italiano non fu un successo di pubblico: si classificò al ventunesimo posto per incassi nella stagione 1971-72 nonostante la presenza di due volti amatissimi, la firma di un regista tra i più noti e tutte le qualità che abbiamo analizzato. Ma è necessaria una precisazione, per un giudizio che sia completo e attendibile: In nome del popolo italiano è un film sottovalutato. Sorte ahimè comune a tante opere di Tognazzi, che sconta secondo me anche un tono paradossalmente troppo “leggero”, come abbiamo visto in equilibrio tra cinema d’impegno e commedia, che forse a inizio anni Settanta non pagava. In una sorta di manicheismo cinematografico, il pubblico si divideva tra il cinema impegnato e i generi “di svago” (la commedia sexy, i poliziotteschi): in questo scenario c’era poca predisposizione alle vie di mezzo! Eppure, rivisto oggi, il film rivela di aver resistito allo scorrere del tempo e di essere ancora ben fruibile. L’ennesima prova di come i grandi maestri della nostra commedia sapessero rappresentare il nostro paese e coglierne gli aspetti più caratteristici.
1 Testimonianza dello stesso Risi raccolta nel volume di M.Causo, “Tognazzi. L’alter…Ugo del cinema italiano”, Besa, Lecce, 2011
2 Rimando alla puntuale analisi dei diversi registri di recitazione in Gabriele Rigola, Una storia moderna: Ugo Tognazzi (capitolo 3: Stile di recitazione e performance attoriale), Kaplan, Roma, 2018
3 Si veda la testimonianza dell’attore in M. Causo (a cura di), op. cit
4 Andrea Minuz, Giustizia, cinema italiano e ideologia italiana. Due film a confronto: Detenuto in attesa di giudizio e In nome del popolo italiano, in Guido Vitiello (a cura di), In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano, Rubbettino
5 Rigola, Op. cit
6 Si vedano le dichiarazioni del regista riportate nel volume di Causo
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