Jules et Jim, uscito nel 1962, terzo lungometraggio firmato da François Truffaut, è qualcosa di più di un grande film. È, semplicemente e vertiginosamente, il cinema, la sua storia, la sua quintessenza.
Sequenze come quella della corsa, con Jeanne Moreau ancora più splendida con i baffi dipinti, o quell’incredibile finale che scioccò gli spettatori dell’epoca e ancora adesso riesce a gelare quelli di oggi, sono la firma non del suo geniale regista, ma dell’intera parabola della settima arte. Ne rappresentano, nella sua estrema semplicità priva di effetti, in quella grammatica dell’immagine rigorosa eppure continuamente trasgredita, in quel bianco e nero spartano ma allo stesso modo sontuoso, tutte le potenzialità espressive, tutte le infinite possibilità di linguaggio.
Al momento della sua uscita, Truffaut aveva già raggiunto fama internazionale grazie al film precedente, Tirate sul pianista, e soprattutto grazie all’esplosivo esordio de I 400 colpi. Jules et Jim era quindi un film atteso, senz’altro dalla critica ma anche dal pubblico.
Fu uno scandalo in piena regola. Il tema del triangolo – e Jules et Jim sarebbe diventato il triangolo per eccellenza – era già stato proposto e scandagliato in tutte le salse, nel cinema e nella letteratura, più o meno dalla notte dei tempi. Perciò non fu tanto la tematica in sé a turbare, quanto la modalità del racconto e come i personaggi affrontano il complesso ménage à trois.
Jules e Jim sono amici per la pelle e, come spesso accade, tutto cambia quando si innamorano della stessa donna, la bellissima e irresistibile Catherine. Jim, pur essendone fatalmente attratto, si fa da parte, Jules la sposa e i due hanno una figlia. Tempo dopo Jim va a trovarli nel sud della Germania dove si sono trasferiti e vedendo la loro relazione sprofondata nella noia e nella crisi, con Jules del tutto abulico che non coltiva più la sua grande passione letteraria, dichiara i suoi sentimenti a Catherine, che si lascia sedurre sotto gli occhi impotenti del marito. Ma a scioccare gli spettatori dell’epoca (e di oggi?) furono gli eventi successivi, con Jules che accetta la relazione tra la moglie e l’amico pur di non perderla, finendo così per vivere tutti e tre sotto lo stesso tempo e con l’amicizia tra Jules e Jim che, proprio in virtù di questo, si rinsalda e torna viva come un tempo. Il tutto dominato da una figura femminile indimenticabile ma troppo audace per l’epoca (e per oggi?), emblema di una donna libera e vitale, autonoma, indomabile e controversa, libertaria e passionale.
Tornando alla trama, la situazione precipita ben presto: non riuscendo ad avere un figlio come vorrebbe la donna, la relazione tra Jim e Catherine ha breve durata e si conclude nella più tragica e inattesa delle maniere. Dopo aver puntato una pistola contro il petto di Jim, Catherine, al volante, imbocca un ponte distrutto nel Quartiere Latino e si uccide precipitando nella Senna, sotto gli occhi per l’ennesima volta impotenti di Jules.
Decisamente troppo. Il divieto ai minori di 18 anni fu praticamente inevitabile, in Italia si rischiò addirittura di non vederlo distribuito. Se arrivò nelle sale, fu soltanto per la paziente e autorevole opera di mediazione di Roberto Rossellini e Dino De Laurentiis.
Opera anarchica e spericolata tanto nella forma quanto nel contenuto, è la fedele trascrizione di uno splendido romanzo che sarebbe senz’altro rimasto nell’ombra più scura se, un pomeriggio, anni dopo la sua uscita silenziosa, François Truffaut non lo avesse pescato da un bouquiniste durante una passeggiata sul lungosenna.
L’autore è Henri-Pierre Roché, uno degli scrittori più irregolari della letteratura francese del Novecento. Formatosi come pittore e illustratore, Roché si avvicinò alla letteratura molto tardi, negli anni bui della Grande Guerra, scrivendo il suo primo libro (una raccolta di frammenti, pensieri e poesie) a trentasette anni, seguito da un’altra pubblicazione simile dedicata al personaggio di Don Juan, edita nel 1920. Seguì un lunghissimo silenzio, interrotto dopo oltre trent’anni proprio da Jules et Jim, uscito nel 1953 e di fatto il suo primo romanzo.
Così Truffaut su quella fortuita scoperta: Ciò che attirò la mia attenzione fu il titolo: Jules e Jim! Fui subito sedotto dalla sonorità di quelle due J. Poi girando il volume per leggere nel retro di copertina la nota biografica, vidi che l’autore, Henri-Pierre Roché, era nato nel 1879 e che Jules e Jim era il suo primo romanzo. Ma allora, pensai, questo scrittore debuttante ha adesso settantasei anni! Come può essere un primo romanzo scritto da un settantenne? Fin dalle prime righe mi innamorai della prosa di Henri-Pierre Roché. Jules e Jim è un romanzo d’amore in stile telegrafico, scritto da un poeta che si sforza di far dimenticare la sua cultura e che allinea le parole e i pensieri come farebbe un contadino laconico e concreto. Leggendo Jules e Jim ebbi la sensazione di trovarmi di fronte un esempio di ciò che il cinema non riusciva mai a fare: mostrare due uomini che amano la stessa donna senza che il pubblico possa fare una scelta affettiva tra questi personaggi, tanto si trova costretto ad amarli tutti e tre nella stessa misura. Ecco l’elemento, anti-selettivo, che mi toccò di più in questa storia che l’editore presentava così: un amore puro a tre.
È perciò proprio – e non poteva essere altrimenti – la natura spudoratamente anarchica e anticonvenzionale della storia ad attrarre e sedurre irrimediabilmente Truffaut. Che decide, più o meno seduta stante, di farne un film.
Contatta così subito l’autore, che si dice entusiasta del progetto e a cui il futuro regista affida il compito di scrivere i dialoghi, che saranno, per volontà dello stesso Roché, “radi e serrati”.
La collaborazione però non si concretizzerà mai. Mentre Truffaut è al lavoro sulla sua opera prima, I 400 colpi, Roché, ottantunenne, muore.
Ma il progetto di portare sullo schermo il suo romanzo non viene affatto accantonato. Assieme a Jean Gruault, con cui lavora anche per Tirate sul pianista, Truffaut scrive la sceneggiatura sforzandosi di rimanere il più possibile fedele a quell’idea di dialoghi “radi e serrati” e, più in generale, all’intero romanzo. Se Truffaut è senz’altro uno dei registi più “letterari” della Nouvelle Vague (e dell’intera storia del cinema), Jules et Jim è senza dubbio uno dei film più fedelmente tradotti dalla carta alla pellicola, un’identità sottolineata dall’abbondante – ma affatto invasiva – presenza della voce fuoricampo, interamente tratta dal romanzo di Roché.
Il risultato è un’equivalenza sorprendente tra lo stile dell’opera letteraria e quello del film. In teoria una scelta che rischia di essere ridondante, ma nella pratica risulta una scelta obbligata e vincente, visto che l’obiettivo di Truffaut era quello di conservare la morale del romanzo, quel particolare modo di vedere il mondo e le persone che emerge da quelle pagine così intense.
In definitiva un “libro cinematografico” capace di rivelare la più inattesa delle affinità elettive tra l’anziano esteta di inizio secolo e il giovane sperimentatore, al punto che proprio questo racconto puro e innocente di un amore scabroso e inconcepibile, permise a Truffaut di esprimere la propria gigantesca autorialità a tutto tondo, arrivando a girare un film che riesce a essere disperatamente leggero, allegro nei suoi più oscuri e vertiginosi tormenti, travolgente pur nell’incedere di un’inevitabile tragedia sentimentale.
Mi hai detto “ti amo”
Ti dissi “aspetta”
Stavo per dirti “eccomi”
Mi hai detto “vattene”
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