Ad Atene, un gruppo composto da quattro delinquenti professionisti – Ralph (Robert Hossein), Renzi (Renato Salvatori), Hélene (Nicole Calfan) guidati dal carismatico e ironico Azad (Jean-Paul Belmondo) è impegnato a rapinare una ricca villa per impossessarsi di una collezione di smeraldi del valore di un milione di dollari. L’operazione viene organizzata con cura e poi brillantemente portata a termine nel cuore della notte. Tuttavia, il giorno successivo, la nave che dovrebbe portare i quattro ladri fuori dal Paese è costretta a rimanere al molo per alcune riparazioni e i quattro si vedono costretti a trascorrere altri cinque giorni in Grecia senza che le autorità abbiano sentore della loro presenza. Ma il granellino di sabbia è rappresentato dal commissario Zacharia (Omar Sharif), funzionario di polizia subdolo e corrotto che intende mettere le mani sui gioielli in cambio della libertà di Azad e dei suoi complici. Di passaggio sul luogo, durante la notte del furto, il pericoloso Zacharia ha assecondato l’azione dei ladri e, forte della sua supremazia sul suo territorio, incomincia a braccare Azad in un gioco urbano del “gatto col topo” che diventerà sempre più intenso e violento…

All’inizio del 1971, quando inizia a girare Gli scassinatori (La casse, 1971), Henri Verneuil è un cineasta tanto talentuoso quanto fortunato. Gli anni Sessanta appena trascorsi vedono infatti la trasformazione di un regista abituato alla commedia (drammatico-sentimentale e leggera, con Fernandel) – e questo, malgrado il superbo dramma Appuntamento al Km. 424 (Des gens sans important, 1955) – in un abile specialista in thriller e film d’azione. A lui si devono soprattutto produzioni che ottengono regolarmente successi al botteghino, costruite su opere solide e coerenti che si elevano ai vertici del cinema popolare di grande richiamo grazie ad una formidabile efficienza nella messa in scena. alla solidità delle sceneggiature e agli attori protagonisti che gareggiano in carisma e sfacciataggine. Con il senno di poi bisogna ammettere che, agli albori degli anni ’70, il meglio del cinema di genere di Verneuil – nonostante qualche rara eccezione – era ormai alle spalle con i grandi successi di Colpo grosso al casinò (Mélodie en sous-sol, 1963), 100.000 dollari al sole (Cent mille dollars au soleil, 1964), Week-end a Zuydcoote (Week-end à Zuydcoote, 1964) e Il clan dei siciliani (Le Clan des Sicilien. 1969).

Il riconoscimento del suo cinema è tale da oltrepassare i confini e il cineasta collabora regolarmente con le major americane come la MGM – La 25ª ora (La Vingtcinquième heure, 1966) e I cannoni di San Sebastian (La Bataille de San Sebastian, 1967) – e della 20th Century Fox con Il clan dei Siciliani. Una collaborazione che non sorprende poiché Verneuil ha sempre rivolto uno sguardo attento sul cinema americano. La sua intelligenza è stata quella di appropriarsi di un certo know-how pur rimanendo fondamentalmente francese, lui emigrante armeno che amava profondamente il suo paese d’adozione e la sua cultura. Nel 1971, tocca alla Columbia coprodurre il suo nuovo film, appunto Gli scassinatori, tratto dal romanzo “The Burglars” di David Goodis pubblicato nel 1953. Leggendario scrittore statunitense di noir popolati da personaggi complessi, manipolatori e instabili, trascinati verso un’inevitabile caduta, Goodis è stato spesso adattato sul grande schermo. Possiamo ricordare La fuga (Dark Passage, 1947) di Delmer Daves , L’alibi sotto la neve (Nightfall, 1956) di Jacques Tourneur, Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste, 1960) di François Truffaut, Lo specchio del desiderio (La Lune dans le caniveau, 1983) di Jean-Jacques Beineix. “The Burglas” (“Lo scassinatore”) era già stato adattato abbastanza fedelmente da Paul Wendkos ne Lo scassinatore (The Burglar, 1957)

Nel suo (molto) libero adattamento del romanzo di Goodis, Henri Verneuil, affiancato dallo sceneggiatore siriano Vahé Katcha, sceglie di trasferire l’azione ad Atene, paese che corrisponde più al suo temperamento e alla sua cultura mediterranea. Una scelta che non era priva di problemi etici, dato che la Grecia era allora uno Stato totalitario e il regista dovette fare i conti con l’amministrazione dei famigerati colonnelli per beneficiare di riprese pacifiche in un paese soggetto a tutti i tipi di vincoli e direttive. Per un artista che da bambino ha dovuto fuggire dall’Armenia a causa del genocidio organizzato dai turchi, questa decisione, che ignora un contesto politico abominevole e doloroso, è difficile da comprendere. Tanto più che non molto prima dell’inizio delle riprese del film, era uscito Z – L’orgia del potere (Z, 1969) di Costa-Gavras, un avvincente thriller politico che affrontava di petto il regime dei colonnelli e sensibilizzava sulla tragedia vissuta dalla Grecia e dal suo popolo. Se pensiamo che Verneuil ha deliberatamente chiamato il suo personaggio principale Azad, che in armeno significa libero, comprendiamo forse del senso ironico di tutta l’operazione. Soprattutto perché la descrizione del personaggio che rappresenta l’autorità locale, vale a dire il commissario Zacharia, è un uomo vizioso e corrotto. Che Verneuil abbia concepito un sottile atto politico?

Rivedendo Gli scassinatori con gli occhi di oggi significa rendersi conto di quanto il cinema spettacolare di Verneuil, nella sua costante ambizione di stupire il pubblico, ponga gradualmente l’accento su sequenze d’azione potenti ma fini a sé stesse a scapito dell’opera presa nel suo insieme. Verneuil pensa immediatamente a Jean-Paul Belmondo per interpretare Azad e gli riserva un trattamento su misura, concependo delle scene che lo mettano in risalto. Gli scassinatori è quindi probabilmente il primo film costruito espressamente per l’attore protagonista e le sue impressionanti imprese fisiche. Un’impostazione che blinderà il “Bebel” nazionale in ruoli di eroe ritagliati da questi prolifici anni ’70, nel bene e nel male. Di conseguenza, Gli scassinatori è strutturato in abbozzi che eliminano completamente la complessità psicologica del romanzo di Goodis disegnando personaggi elementari. E dal momento che Henri Verneuil non è né uno sperimentatore, né un intellettuale né un esteta come Jean-Pierre Melville, l’assenza di una storia ricca e solidamente strutturata e di personaggi approfonditi si avverte inevitabilmente.

Ne è un esempio il lungo inseguimento automobilistico concepito come una sfida a Bullitt (id., 1968) di Peter Yates, il cui inseguimento automobilistico attraverso San Francisco aveva fino ad allora stabilito nuovi standard per questo tipo di sequenze. Questa volta si tratta di fare ancora meglio lanciando le sue due auto nel traffico ateniese. Sotto la responsabilità del grande Rémy Julienne e della sua squadra, questa scena di inseguimento senza musica di dieci minuti si rivela prodigiosa dal punto di vista tecnico e logistico. Tuttavia, non riesce ad elevare il contesto a un livello drammatico. Il motivo è semplice: sembra “un film nel film”, slegato dalla storia che ci viene raccontata, avendo come unico tema la corsa stessa. E quando l’auto del “gatto” Zacharia finisce per incastrare quella del “topo” Azad in un vicolo cieco, il breve dialogo faccia a faccia tra Belmondo e Omar Sharif si rivela alla fine molto più interessante dello spettacolo motorizzato. Ironia della sorte per Verneuil, lo stesso anno in cui esce sugli schermi il suo film, appare Il braccio violento della legge (The French Connection, 1971), il cui inseguimento automobilistico rimane ancora oggi uno dei migliori mai realizzati, se non il migliore, altrettanto folle, sproporzionato, inconsapevole, mozzafiato e soprattutto in sintonia con l’atmosfera generale del film di William Friedkin e con la psicologia dei suoi personaggi.

Tuttavia, la rapina inizia molto bene. I titoli di testa, incentrati sull’idea di un’organizzazione ben orchestrata ma seguita a distanza da una prospettiva esterna, ci fanno entrare subito nell’atmosfera: i quattro componenti del gruppo di ladri sono definiti da un bersaglio mobile su sfondo rosso in modo che ognuno di loro arrivi in ​​città per prendere parte all’operazione. Tutto sul celebre tema musicale di Ennio Morricone (affine a quello de Il Clan dei Siciliani), una sorta di ritornello orecchiabile con la variazione della stessa linea melodica (complice Bruno Nicolai) che genera sentimenti contrastanti: la sicurezza dei personaggi nella meccanica esecutiva dei loro affari, una certa ingenuità, ma anche una pungente ironia e una diffusa impressione di pericolo. Segue la scena vera e propria della “rapina”. Quasi completamente muta (a parte quattro o cinque battute di dialogo) è un modello del genere. Henri Verneuil si prende il suo tempo (20 minuti) e ci dimostra la sua sapienza narrativa solo attraverso le immagini. Caratterizzato dal gioco di sguardi e dai movimenti sincronizzati dei personaggi che evolvono intelligentemente nell’ampia inquadratura del Cinemascope, dotato di un taglio molto dinamico (con piccoli effetti zoom su precise azioni manuali), il contesto evidenzia l’attenta preparazione di un’operazione che mira a raccontare con calma la penetrazione nella villa del ricco proprietario degli smeraldi per scassinare “scientificamente” la sua cassaforte. Un Belmondo calmo e metodico manipola con cura le apparecchiature elettroniche e meccaniche ultrasofisticate installate in una custodia, al fine di far corrispondere la chiave alla cassaforte e quindi trovare il codice per aprirla. Se questo strumento sembra totalmente fantasioso, la sequenza nel suo insieme riesce ad essere credibile grazie alla sua precisa rappresentazione e alla suspense guidata dall’idea di un lavoro professionale perfettamente eseguito.

Una volta ultimata questa scena, lo spettacolo si trasforma nel faccia a faccia tra il poliziotto (corrotto) e il ladro (simpatico) per tutto il film. Un confronto giocoso e virile allo stesso tempo, tra un piroettante Jean-Paul Belmondo e Omar Sharif, in uno dei suoi ruoli più sorprendenti. Sharif conferisce al suo personaggio di poliziotto venale un lato giocoso, perverso e sadico di grande spessore. Qualche nota di umorismo viene dispensata qua e là durante i loro contatti ravvicinati (uno dei quali, da ubriaco, in un ristorante) o quando Omar Sharif decide di divertirsi in modo un po’ malsano (e sanguinoso) con i complici di Azad. Fino allo scontro in un silo di grano vicino al porto, con la frase “cinquanta e cinquanta” ripetuta più volte da Belmondo a uno Sharif testardo fino alla morte. In precedenza Verneuil si era impegnato a filmare Belmondo nella sua travolgente prestazione da stuntman mentre fugge dalla polizia venuta ad arrestarlo nel suo hotel. Saltando di macchina in macchina, di autobus in autobus e poi di autobus in camion nel traffico automobilistico della capitale greca, le sue doti acrobatiche si mettono in risalto fino alla caduta vertiginosa in una cava tra le pietre che rotolano lungo un pendio. Un’avvincente scena d’azione, della durata di sette minuti, vero momento clou del film.

Cosa non funziona, nel film, è la presenza della bionda statuaria Dyan Cannon, richiesta dalla coproduzione internazionale, in un ruolo superficiale e mal scritto di misteriosa femme fatale destinata a manipolare il protagonista. Rimangono comunque alla memoria la contrapposizione tra Jean-Paul Belmondo e Omar Sharif, e l’efficace ambientazione offerta dai paesaggi di Atene e dintorni.

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