Mentre la maggior parte dei suoi compagni Apache vengono ammassati nelle riserve dell’Arizona, John Russell – soprannominato “Hombre” (Paul Newman) -, un uomo taciturno cresciuto dalla tribù durante la sua prima infanzia, scopre di aver appena ereditato dal tutore che aveva da adolescente; è diventato proprietario di un hotel attualmente gestito da Jessie (Diane Cilento). Ma, avendo subito ogni sorta di umiliazioni durante la sua permanenza nella riserva di San Carlos con gli indiani, disprezzando ormai gli uomini bianchi, non vuole restare a vivere tra loro e decide di avviare un allevamento scambiando la proprietà con una mandria di cavalli. Una volta completata la transazione, lascia la città a bordo di una diligenza espressamente noleggiata da Favor (Fredric March), un agente degli “Affari Indiani”, che desidera lasciare la regione il prima possibile. A loro si uniscono la moglie dell’agente, il direttore dell’albergo che non ha più un lavoro, suo figlio e sua nuora, nonché un uomo rozzo e arrogante, Cicero Grimes (Richard Boone). Venuti a conoscenza delle sue “origini” pellerossa, i passeggeri costringono John a proseguire il viaggio insieme all’autista. La diligenza ha difficoltà a raggiungere la sua destinazione poiché quattro banditi le tendono un’imboscata per impossessarsi di una delle borse da viaggio di Favor, che si scopre contenere una bella somma che ha sottratto agli indigeni della “Business Administration”…

Martin Ritt è un regista uscito dalla televisione a metà degli anni Cinquanta in compagnia di altri colleghi della sua generazione provenienti dallo stesso pool: Delbert Mann , Daniel Mann, Sidney Lumet e Arthur Penn. Di lui Claude Chabrol scrisse nei Cahiers du Cinéma che la sua filmografia “non è altro che piccolezza, ottusità e mediocrità”. Ovviamente non siamo d’accordo, dato che ha firmato opere come Un urlo nella notte, La lunga estate calda, L’urlo e la furia, Jovanka e le altre, Paris Blues, Hud il selvaggio, La spia che venne dal freddo, I cospiratori, Per salire più in basso, Conrack, Il prestanome… tutti eccellenti, non meritano davvero di essere trattati in questo modo.
La sua unica vera incursione nel western è questo Hombre (id., 1967), che adatta il grande romanziere Elmore Leonard, autore versatile sul fronte del western e del noir (dai suoi romanzi sono stati adattati, per esempio, Quel treno per Yuma di Delmer Daves e Jackie Brown di Quentin Tarantino). Cineasta impegnato e progressista, incluso nella famigerata lista nera del senatore Joseph McCarthy, Martin Ritt ha denunciato in tutta la sua carriera ogni tipo di ingiustizia, intolleranza, razzismo e individualismo. L’enorme successo di Hud il selvaggio, western melodrammatico contemporaneo già interpretato da Paul Newman, spinse gli autori a scrivere Hombre, un western ambientato questa volta nel XIX secolo, a metà degli anni Ottanta dell’Ottocento durante il quale gli Apache erano stati quasi tutti ammassati nelle riserve in difficilissime condizioni di vita, tra cui quella di San Carlos – per chi volesse saperne di più su questa specifica riserva, c’è un interessante western diretto da Jesse Hibbs con Audie Murphy che è ambientato lì, La terra degli Apache (Walk the Proud Land, 1956). Nonostante le sue reali qualità – tra cui l’intelligenza del dialogo e l’assenza di manicheismo -, Hombre non incontrerà lo stesso entusiasmo di critica di Hud a causa della freddezza della messinscena, con personaggi meno accattivanti, una gestione del ritmo non sempre adeguata, e una trama poco accattivante: una sorta di mix tra Ombre rosse, Il nodo del carnefice e Passaggio di notte. La diligenza diventa la protagonista emblematica di un contesto in cui un gruppo di banditi assedia i viaggiatori costringendoli ad asserragliarsi in un luogo ristretto a cielo aperto nei pressi di una miniera e di una caserma.

Nel Cinemascope valorizzato dalla
bellezza della fotografia di James Wong Howe, da un tema musicale morbido e accattivante scritto da David Rose, e dalla qualità della regia di Martin Ritt – che conosce perfettamente la gestione dello spazio offerto dal grande schermo -, Hombre sembra proseguire come un tradizionale western filo-indiano con sequenze viste più volte che evocano il razzismo ordinario contro gli indigeni, derisi e poi provocati nei saloon dove vanno a bere tranquillamente, scene che spesso sfociano nella violenza. L’originalità del film consiste nel fare del suo personaggio principale il simbolo e portavoce della nazione indiana, un uomo bianco, per di più taciturno e a prima vista egoista e antipatico. La principale forza e audacia del film è quella di lanciare un messaggio di tolleranza anti-individualista e anti-razzista attraverso i suoi protagonisti, dal momento che saranno riuniti nella diligenza, oltre a questo meticcio, bianco (di nascita) mezzo Indiano (per cultura e tradizioni in cui è cresciuto), di grande ruvidezza caratteriale e non particolarmente amabile, inglorioso rappresentante dei Wasps dell’epoca: una disonesta coppia di agenti degli “Indian Affairs” fuggiti con il denaro sottratto alla loro amministrazione, una giovane donna che cercherà di vincere la noia flirtando con altri uomini davanti al marito e alla suocera, nonché un tipo arrogante e inquietante che si rivelerà essere il capo del quartetto di banditi a cui si unisce uno sceriffo che ha servito la legge per decenni.

Per quanto riguarda lo sceriffo, è un peccato che questo uomo di legge interpretato da Cameron Mitchell non abbia avuto maggiore rilevanza all’interno della trama, dato che oltre ad essere interessante è al centro di una delle sequenze più belle del film, quella in cui rifiuta la proposta di matrimonio della direttrice dell’albergo nonostante condivida il suo letto da mesi, spiegandole che non è fatto per lei evocando la sua vita mediocre. Raramente il mestiere dello sceriffo è stato descritto con tanta lucidità, amarezza e anti-eroismo. Questa sequenza, disillusa e malinconica al tempo stesso, dà il giusto tono alla prima parte, molto riuscita, di questo western, molto classico nella messa in scena ma abbastanza moderno nella scrittura. Hombre intende anche denunciare le intollerabili condizioni di vita degli Apache parcheggiati nelle riserve dell’Arizona, situazione manifestata dal carattere di John “Hombre”, raramente loquace. Ma è in seguito a queste spiegazioni che gli altri passeggeri – tanto per senso di colpa quanto per disgusto verso i pellerossa – chiederanno che quest’uomo allevato dai “selvaggi” esca dalla diligenza per proseguire il viaggio con l’autista. Cacciato da questa piccola comunità, sarà poi lui quello su cui dovranno contare per uscire dalla trappola in cui cadranno, non per l’azione di pochi selvaggi fanatici ma per opera di un quartetto di uomini bianchi che vogliono appropriarsi del denaro che dovrebbe servire per migliorare le condizioni di “detenzione” degli Apache (e di cui si era appropriato il principale gestore della riserva).

Il tema filo-indiano così come quello del razzismo sono affrontati da un’angolazione abbastanza originale e soprattutto del tutto nuova, senza alcun sentimentalismo o manicheismo poiché “Hombre” non fa nulla per aiutare i suoi compagni di viaggio se non quando è costretto. All’inizio del film, non muove un dito per difendere il suo vicino e permette al rude personaggio interpretato da Richard Boone di terrorizzare un soldato finché questi non gli darà il biglietto della diligenza. Questo atteggiamento del tutto individualistico – abbastanza comprensibile considerando ciò che gli uomini bianchi hanno fatto a lui e ai suoi colleghi indiani – si rivela improvvisamente quasi identico a quello di quei bianchi che lui “diffama”. Ad ammorbidire questo ritratto intransigente degli americani dell’epoca, con un po’ di umanità, dignità e altruismo ci pensa il personaggio di una donna coraggiosa e determinata interpretata con talento da Diane Cilento. È l’unica tra tutti a indignarsi per la mancanza di solidarietà dei suoi compagni, la loro mancanza di empatia, l’indifferenza verso la sorte dei loro simili, convinta che ognuno abbia diritto a qualsiasi aiuto qualunque sia il suo passato e le sue azioni. Un’etica e una generosità che solo lei possiede e che saranno probabilmente all’origine della reazione finale del tutto imprevedibile di “Hombre”; di fronte a questo coraggio disinteressato, abbandonerà il suo individualismo e la sua misantropia per sacrificarsi e porre fine alla situazione pericolosa in cui si trova il gruppo. Un gesto quasi cristologico che fa sì che il film si concluda con una nota certamente oscura, ma che tuttavia infonde speranza nell’essere umano, tipico del cinema di Martin Ritt.

Hombre è un western lento e austero che suggerisce uno sguardo innovativo a temi triti e banali, un’opera intelligente ma singolarmente priva di tensione nella lunga ripresa finale nonostante l’interpretazione complessiva di alto livello: un carismatico Paul Newman, un truculento e spaventoso Richard Boone – che ruba tutte le sequenze in cui appare -, una superba Diane Cilento nei panni del personaggio più interessante del film e anche Fredric March in una delle sue ultime apparizioni sullo schermo. Idee politiche generose e ritratti senza compromessi, una sceneggiatura rigorosa e senza alcun sentimentalismo per un western cupo e lucido sulla disumanità di gran parte di coloro che hanno forgiato gli Stati Uniti. Indubbiamente, un film a tratti disomogeneo, a volte privo di potenza, con certi effetti violenti del tutto superati (ma c’è da pensare che non si volesse emulare il western all’italiana).
In definitiva, un western assolutamente onorevole da uno dei registi più significativi della “nuova” Hollywood… di allora.

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Una risposta a “Un Apache di nome Gesù”

  1. Ciao Massimo,
    Questo è un film di Ritt che non ho visto.
    Leggendo il tuo articolo mi ha molto affascinato la trama.
    Adesso lo cerco.
    Maurizio

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