Quando si tocca l’argomento “poesia ed esilio”, tre nomi mi si accendono subito nella memoria : Ovidio, Dante, Iosif Brodskij. Sono le tre icone assolute della Musa in esilio. Non le uniche, certo. I nomi sono tanti e non meno illustri. Esuli furono anche intellettuali e scrittori come Gabriele Rossetti e Ugo Foscolo che in Inghilterra morì, non prima di avervi pubblicato nel 1826 il Discorso sul testo della Divina Commedia. Per tacere di tanti scrittori tedeschi -in primis Thomas Mann- che dovettero lasciare quella latrina della Germania durante il nazismo. Ma per ragioni di spazio devo limitare il campo di osservazionie a pochi casi esemplari. In un suo libro su Dante (Li dolci detti, Marsilio editore), Gandolfo Cascio, che insegna letteratura italiana all’Università di Utrecht, dedica il capitolo finale al tema dell’esilio nella poesia, e in particolare a tre poeti accomunati da questa condizione: Ovidio, Dante e Osip Mandel’štam. 

Un giallo letterario

Ovidio fu bandito per espressa volontà dell’imperatore Augusto sulle rive del Mar Nero, a Tomi, l’attuale Costanza: agli estremi dell’Impero, del mondo conosciuto, della civiltà; condannato a un duro confino, così disumano che al confronto il montuoso e arido paesino di Gagliano in Basilicata, dove Carlo Levi ambienta Cristo si è fermato ad Eboli, è  un resort di lusso.

Immaginate voi il povero Ovidio, poeta dei piaceri sensuali, del lusso, del successo, un Andrea Sperelli di quell’epoca, costretto a vivere in un luogo gelido, inospitale e barbaro. Ovidio non era un dissidente politico; aveva semplicemente udito, o assistito a, qualcosa che non doveva sentire o vedere, qualcosa di così grave che fu spedito dall’Eden di Roma ai ghiacci del Mar Nero. Il confino subito da Ovidio è anche uno dei gialli irrisolti della storia della letteratura mondiale. Non si saprà mai cosa spinse il divo Augusto a comminare una sentenza così inappellabile. Né Ovidio ci aiuta a capirlo. Ci dice solo, e ripetutamente, che ha visto o scritto qualcosa di grave o che non doveva scrivere o vedere. Il prodotto di quell’allontanamento forzato sono due libri sofferti, le Lettere dal Ponto (“Epistulae ex Ponto”) e i Tristia, i più autobiografici che il poeta di Sulmona ha scritto con la disperata forza di volontà di chi, pur relegato in un paese lontano, barbaro, freddo e inospitale, vuole continuare a scrivere versi lottando con la sofferenza e la nostalgia che impediscono la grande poesia:

Un’immagine di Costanza durante l’inverno

Carmina proveniunt animo deducta sereno;
me mare, me venti, me fera iactat hiems. (…)
Dat mihi Maeoniden et tot circumice casus
ingenium tantis excidet omne malis. 
(Tristia, I, 1, vv. 39-48) 

Nascono i versi soltanto da menti serene composti;
Datemi il vate Menino: mettetelo in mezzo a sciagure:
Non c’è talento che non crollerà sotto il peso di mali/tanto gravi. 
(traduzione mia) 

Questa consapevole inadeguatezza del suo stile attuale rispetto ai fasti poetici di quando era felice e circondato dal successo a Roma (donec eris sospes, multos numerabis amicos:/tempora si fuerint nubila, solus eris: finché si è sani e salvi si hanno amici in gran numero; ma quando il cielo si fa nuvoloso si resta soli) rappresenta uno dei temi ricorrenti dei Tristia; insieme all’altro, strettamente legato, del luogo inospitale e barbaro dove si trova esule a causa di un error, non di un crimen: “perdiderint cum me duo crimina, carmina et error” (II, I 207).

Al di qua del Danubio

“Gettato in mezzo ai nemici, soffro tormenti estremi, e nessun altro sconta un esilio più lontano dalla patria. Io solo, destinato là dove il Danubio sfocia in mare con sette bocche, sono oppresso dal gelido polo dove ha sede la vergine parrasia; Cizigi, Colchi, le torme dei Màteri e i Geti sono a stento tenuti lontani dal fiume che è interposto (il Danubio, ndr). Benché altri siano stati da te espulsi per un motivo più grave, a nessuno è stata assegnata una destinazione più remota della mia. Più in là non c’è altro che freddo e nemici, e l’acqua del mare che si rapprende in ghiaccio. Il dominio di Roma sulla riva del Ponto Sinistro arriva fin qui; la regione subito oltre è possesso di Bastarni e Sarmati. Questa è l’ultima terra sotto giurisdizione romana”.

Ultima perpetior medios eiectus in hostes,
nec quisquam patria longius exul abest. 
Solus ad egressus missus Settemplicis Histri 
Parrhasiae gelido virginis axe premor;
Ciziges et Colchi Matereaque turba Getaeque
Danuvii mediis vix prohibentur aquis; 
cumque alii causa tibi sint graviore fugati, 
ulterior nulli, quam mihi, terra data est. 
Longius hac nihil est, nisi tantum frigus et hostes, 
et maris adstricto quae coit unda gelu. 
Hactenus Euxini pars est Romana sinistri:
proxima Bastarnae Sauromataeque tenent. 
Haec est Ausonio sub iure novissima vixque 
haeret in imperii margine terra tui. 
(Tristia, II, 1, vv. 186-200)

A nessuno, scrive Ovidio, è stato inflitto un esilio così ingiusto e disumano. E se è vero che il poeta non manca di ricordare il suo errore (ma quale? Non lo specifica mai), è anche vero che non ha scritto cose così licenziose e scandalose da suscitare l’ira di Augusto:

“Tuttavia, se è vero che le azioni dei mortali non sfuggono mai gli dei, voi sapete che quel che ho commesso non è stato intenzionale: anzi, se lo sapete, se è stato un mio sbaglio a perdermi, io sono stato stolto, non malvagio” (I,2, vv.97-100). 

A culpa facinus scitis abesse mea.
Immo ita, si scitis, si me meus abstulit error
Stultaque mens nobis, non scelerata fuit

Qui per la prima volta nei Tristia (ma altre ricorreranno) Ovidio fa un’importante distinzione tra scelus (delitto intenzionale) e culpa (violazione involontaria della legge dovuta a error). I Tristia sono fra le più belle testimonianze di poesia autobiografica. A partire dal dialogo con il proprio libro cui è permesso, a differenza dell’autore, di visitare Roma e gli affetti del poeta:

“Senza di te, piccolo libro, -e non te ne voglio- andrai a Roma: purtroppo non vi può andare il tuo autore! Va’, mai disadorno, come si addice all’opera di un esule. Prendi nella tua tristezza l’aspetto richiesto da tale situazione” (I,1, vv.1-4). E nel suggerire al suo libro una presentazione dimessa, Ovidio richiama una serie particolari relativi al volumen che era costituito da una striscia di papiro arrotolata su una bacchetta, di legno o di osso, le cui estremità sporgevano dal rotolo stesso, racchiuso poi in un involucro di pergamena spesso tinta di porpora; sulla parte superiore era applicata una striscia che recava in inchiostro rosso il nome dell’autore e il titolo dell’opera; l’olio di cedro aveva la funzione di tener lontane le tignole, mentre le due basi del cilindro arrotolato venivano rifilate e forse anche colorate (nota 2 ai versi iniziali di Tristia, Rizzoli Bur 1994). 

La poesia dei Tristia è per me come una bellissima matrona ancor sensuale che senza trucco (solo il giusto) né troppi orpelli guarda, disperatamente rassegnata ma dignitosa la sua solitudine di donna un tempo corteggiata. Io partirei dai Tristia per rifare una poesia autobiografica vera. Autenticamente e classicamente disperata.

“L’essilio che m’è dato onor mi tegno”

Domenico Paterlin, Dante in esilio

Se il poeta di Sulmona riconosce il suo errore, legittimando in qualche modo la sua punizione, e profondendosi in appelli inesausti alla bontà dell’Imperatore perché lo si faccia tornare dall’esilio; Dante, al contrario, si mostra ben più tetragono, negando ogni colpa e anzi ritenendosi la vittima di un complotto politico. La fuga obbligata da Firenze, dal suo “bel San Giovanni”, diventa un nuovo inizio per Dante, esule, anzi, come lui si definisce, exul immeritus, ma itinerante nell’Italia settentrionale, a contatto con nuovi Signori (al servizio dei Da Camino a Treviso, dei Malaspina a Sarzana e nel Casentino, e poi da  Can Grande della Scala a Verona o alla corte di Guido Novello da Polenta a Ravenna, l’ultimo rifugio) e soprattutto impegnato su nuove opere, tra l’altro le sue più importanti: perché durante l’esilio Dante ha scritto quasi tutto il meglio della sua produzione: dal Convivio alla Divina Commedia. Si è quasi tentati di supporre che se Dante non fosse dovuto scappare da Firenze, dalla sua amata patria, dal “bello ovile ov’io dormi’ agnello” (Par. XXV, 5), non avrebbe scritto la Divina Commedia e a noi posteri sarebbe mancata una delle buone (e pochissime) ragioni che giustifichino la permanenza in questo inferno chiamato vita.  

Molti dettagli, quasi tutti letterari, legano Dante a Ovidio al quale l’Alighieri deve gran parte delle sue conoscenze in materia mitologica. Dante pone Ovidio nella “bella scola” degli antichi poeti (Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, e Virgilio e -sesto tra cotanto senno- lui stesso!) e addirittura ingaggia una sfida letteraria con l’autore delle Metamorfosi nel canto XXV dell’inferno, descrivendo una doppia trasformazione da uomo a serpe e da serpe a uomo. 

In una famosa canzone (Tre donne intorno al cor mi son venute) Dante si gloria del proprio esilio:

E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi 
così alti dispersi,
l’essilio che m’è dato, onor mi tegno:
Ché, se giudizio o forza di destino
vuol pur che il mondo versi 
i  bianchi fiori in persi,
cader co’ buoni è pur di lode degno.” (47-CIV, vv. 73-80)

Nel Convivio Dante ritorna sul tema dell’esilio in un famoso passo autobiografico: “…per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano immaginato, ne consueto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che fosse a fare” (I, III, 5)

Ma è nel Paradiso che Dante toccherà le note più dolenti dell’esilio, predetto dal trisavolo Cacciaguida, nel cielo di Marte. Prima di entrare direttamente nei termini della profezia, l’anima dell’antico parente gli comunica la necessità di lasciar Firenze come il figlio di Teseo, Ippolito, dovette abbandonare Atene per colpa della matrigna Fedra:

Qual si partìo Ippolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
Tu lascerai ogni cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco dello essilio prima saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e’l salir per l’altrui scale.
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contra te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.
Di sua bestialità il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.” (Par. XVII, 46-69)

Osip Mandel’štam

“A me, sul serio, vien fatto di domandarmi quante suole di pelle bovina, quanti sandali abbia consumato l’Alighieri, nel corso della sua attività poetica, battendo i sentieri da capre dell’Italia. L’Inferno, e ancor più Il Purgatorio, celebrano la camminata umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede e la sua forma. (…) In Dante filosofia e poesia sono sempre in cammino, sempre in piedi. Anche la sosta è una varietà di movimento accumulato: la piattaforma per una conversazione viene creata a prezzo di sforzi da alpinista”. Osip Mandel’štam scrisse le Conversazioni su Dante sulla costa orientale della Crimea, fra la primavera e l’estate del 1933. La Crimea non è poi così lontana da quella Tomi dove era stato relegato Ovidio. Nel 1922 Mandel’štam aveva pubblicato la sua seconda raccolta di versi, intitolata Tristia, come le poesie scritte da Ovidio nel suo esilio sul Mar Nero. Molti russi amano il poeta latino, perché ben conoscono la condizione di esiliato nel proprio paese (“Noi la sorte di Ovidio patiamo a casa nostra”, per citare un verso di Konstantin Vaginov, poeta che aderì all’acmeismo e fu amico di Mandel’štam): Mandel’štam fu prima relegato a mille chilometri a nord est di Mosca per tre anni, poi riarrestato e condannato a cinque anni deportazione “per attività controrivoluzionaria”. 

Se penso a Mandel’štam non posso evitare il collegamento con Iosif Brodskij (Leningrado 1940-New York 1996, premio Nobel nel 1987) che a Osip Mandel’štam (“il più grande poeta russo di questo secolo”, cioè il XX), ha dedicato uno dei saggi di Fuga da Bisanzio (Il figlio della civiltà), a cui segue, nell’edizione Adelphi, un omaggio a Nadežna Mandel’štam, moglie e vedova del grande poeta russo. Prima di entrare nel dettaglio della poesia di Mandel’štam, Brodskij fa questa premessa che ha tutto l’aroma di una dichiarazione di estetica: 

“Dopo l’ultimo verso di una poesia non c’è più posto per nulla, se non per la critica letteraria. Così, quando leggiamo un poeta, partecipiamo alla sua morte o alla morte delle sue opere. Nel caso di Mandel’štam partecipiamo all’una e all’altra. (…) Si potrebbe dire, parafrasando il filosofo, che scrivere poesia è un modo, anch’esso, di esercitarsi a morire. Ma, a parte la pura necessità linguistica, ciò che spinge a scrivere non è tanto una preoccupazione per la caducità della propria carne, quanto l’impulso a salvare certe cose del proprio mondo -della propria civiltà personale, della propria continuità non-semantica. L’arte non è un’esistenza migliore, ma è un’esistenza alternativa; non è un tentativo si sfuggire alla realtà, ma il contrario, un tentativo di animarla. È uno spirito che cerca la carne ma trova parole. Nel caso di Mandel’štam la sorte ha voluto che le parole fossero della lingua russa”. 

Iosif Brodksij

I problemi per Iosif Brodksij cominciano nel 1963 con la denuncia del poeta, da parte del Segretariato dell’Unione Scrittori, alla Corte di Giustizia, come “parassita”. Alcuni agenti del Kgb arrivano addirittura ad arrestarlo per strada, e ne confiscano successivamente diari e carte. L’anno dopo, gennaio-febbraio, il processo: almeno venti i capi d’accusa, tra i quali vagabondaggio, distribuzione di opere di autori proibiti (come le due regine della poesia russa, Anna Achmatova e Marina Cvetaeva), corruzione della gioventù. Gli viene contestato nientemeno «di avere una visione del mondo dannosa per lo Stato, di essere un decadente e un modernista, di non aver completato gli studi, di macchiarsi di parassitismo sociale e di non avere un’occupazione tranne scrivere poesie orrende». Era il 1964. È condannato a 5 anni di confino in un sovchoz (azienda agricola statale), e prima di andare in Siberia, viene mandato in un ospedale psichiatrico. La condanna ai lavori forzati verrà commutata (4 novembre 1965), ma si fa parecchi mesi di lavori manuali e piuttosto umili (come spalare il letame) nel villaggio di Norenskaja, vicino al Circolo Polare Artico. Trova però il tempo di studiare e leggere, soprattutto l’inglese. Nel 1964 Iosif Brodskij andò sotto processo e fu uno dei primi in Unione Sovietica ad essere perseguito, per il solo fatto di essere uno scrittore. Dopo di lui -come ricorda Michael Scammel nella sua intervista in Conversazioni (Adelphi) – c’è stato il caso di Sinjavskij e Daniel, e poi, su un altro piano, Pasternak e Solženicyn hanno avuto i loro problemi. Ma diversamente da loro, “Brodskij non ha mai preso posizione contro il regime e non ha mai criticato pubblicamente le autorità letterarie o meno, nel modo in cui lo ha fatto persino Pasternak”. 

Brodskij s’inserisce nel ricco filone di scrittori del Novecento che, prima di lui, hanno usato come strumento espressivo e letterario le lingue dei paesi di adozione: come l’irlandese Samuel Beckett, che, emigrato in Francia nel 1938, cominciò a scrivere in francese nel 1945, e il russo Vladimir Nabokov, nato anch’egli a Pietroburgo (1909), che nel 1940 si trasferì negli Usa, e continuò la sua attività di romanziere in inglese, la lingua di Lolita, il libro pubblicato semi-clandestinamente a Parigi nel 1955, che gli diede poi notorietà internazionale. 

Ecco come Brodskij spiega quando e come decise di cominciare a scrivere in inglese, che non era, ovviamente, la sua lingua madre. Citiamo l’incipit di uno dei suoi saggi più belli, Per compiacere un’ombra:

“Quando uno scrittore ricorre a una lingua che non sia quella materna può farlo per necessità come Conrad, o per una divorante ambizione, come Nabokov, o per arrivare a un estraniamento più profondo, come Beckett. Facendo parte di un girone diverso, nell’estate del 1977, quando vivevo in America già da cinque anni, entrai in una piccola bottega di Sixth Avenue a New York, mi comprai una «Lettera 22» portatile e mi accinsi a scrivere in inglese (saggi, traduzioni, ogni tanto una poesia) per un motivo che aveva ben poco a che fare con quelli che ho elencato. Il mio unico intento era, allora come adesso, di ritrovarmi  più vicino all’uomo che consideravo la più grande mente del ventesimo secolo: Wystan Hugh Auden” (Fuga da Bisanzio, Adelphi, 1987).

Vladimir Nabokov

La questione della lingua è centrale per quasi tutti gli esuli e gli espatriati, figuriamoci per gli scrittori. Sul rapporto tra Emil Cioran e la lingua francese rimando a un mio articolo più specifico; basti qui ricordare che lo scrittore e pensatore di origine rumena, pubblicò il suo primo libro in francese, il Précis de decomposition, nel 1949, quando viveva a Parigi da più di dieci anni, arrivato  da Bucarest con una borsa di studio. Per Cioran il francese non è solo la lingua di sostituzione necessaria al comunicare quotidiano; diventa anche volontaria adozione di una lingua d’arte. Abbandonare il romeno per il francese era per Cioran una scelta non meno necessaria di quella che fece Brodskij nello scrivere in inglese i suoi saggi: francese e inglese sono lingue intese e parlate da molte più persone rispetto al romeno e al russo. Ma per Ovidio che pure nei suoi Tristia si scusa con i lettori per gli eventuali barbarismi del suo latino, sarebbe stato un affare scrivere in quello strano dialetto locale di cui lui non capiva quasi niente? Comporre in latino, allora, equivaleva a scrivere in una lingua parlata in tutto l’Impero. E Ovidio non fece più ritorno in patria. Come l’esule Dante. Al quale fu, però, riservata dal destino miglior sorte: morire in quella mistica e antica Ravenna, “glauca notte rutilante d’oro” che Gabriele D’Annunzio, anch’egli abruzzese, definirà “cupa carena grave d’un incarco/imperiale, ferrea, construtta/di quel ferro onde il Fato/è invincibile, spinta dal naufragio/ai confini del mondo,/sopra la riva estrema!”.

Alla fine dei Tristia (IV, 10) Ovidio si congeda con una breve autobiografia, nella quale ricorda anche il luogo natio, il fratello, il padre -che gli sconsigliava la vana passione (“studium quid inutile temptas?”- della poesia, e la sua vita brillante a Roma. “La mia patria è Sulmona, ricchissima di fresche acque, distante novanta miglia da Roma, qui io nacqui”.Sebbene due siano le cause della sua rovina, come egli stesso ammette, “carmen et error”, un’opera poetica  e un errore, i Tristia finiscono con una lode alla Musa:  

“Gratia, Musa, tibi: nam tu solaci praebes,
Tu curae requiem, tu medicina venis.
Tu dux et comes es, tu nos abducis ab Histro,
In mediocre mihi dąs Helicone locum”; (IV, 117-120)

“È dunque a te, Musa, che devo essere grato di essere vivo e di far fronte a duri affanni, e di non essere preso dal tedio di vivere nell’angoscia: perché sei tu che mi dai consolazione, tu vieni a recare quiete e sollievo alle mie pene. Tu sei guida e compagna. Tu mi porti lontano dall’Istro e mi dai una sede in mezzo all’Elicona”. Anche oggi suonano come parole ideali per una  preghiera.   


Dante Alighieri, La Divina Commedia, testo critico della Società dantesca italiana riveduto col commento scartazziniano rivisto da Giuseppe Vandelli con rimario di Luigi Polacco, Hoepli, 1932
Ovidio, Tristezze, introduzione, traduzione e note di Francesca Lechi, Rizzoli Bur, 1994
Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, il melangolo, Genova, 1994
Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, 1993
Iosif Brodkij, Conversazioni, a cura di Cynthia L. Haven, Adelphi, 2022

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