La semiologia del cinema, intesa come disciplina autonoma e riconosciuta, nacque ufficialmente nel 1964. Segno da un lato del clima elettrico di rinnovamento di ogni settore del vivere sociale e del sapere che caratterizzò tutti gli anni 60, dall’altro della definitiva emancipazione dell’arte cinematografica, che a un passo dal suo settantesimo compleanno si trovava a celebrare il suo vertiginoso e rapidissimo cammino da fenomeno da baraccone a oggetto di studi accademici.
Pier Paolo Pasolini, a quell’altezza cronologica, aveva esordito come regista da appena quattro anni, ma la sua filmografia già comprendeva tre lungometraggi, un corto e due documentari. Per non parlare delle numerose collaborazioni, nel decennio precedente, alle sceneggiature di Federico Fellini e Mauro Bolognini (e, soprattutto, del soggetto “regalato” a Bernardo Bertolucci per il suo esordio dietro la macchina da presa, La commare secca).
Senza venir meno a quel suo incessante bisogno di vivere ogni linguaggio sperimentato sotto ogni punto di vista, Pasolini partecipò più che attivamente al grande dibattito di quegli anni, dialogando con Umberto Eco, Roland Barthes e gli altri grandi pionieri della filosofia del cinema.
I principali interventi di Pasolini in merito furono poi raccolti nel volume di saggi Empirismo eretico, edito nel 1972 da Garzanti. Gli scritti sul cinema presenti nel libro sono tre, di cui il più celebre è senza dubbio il primo, dove Pasolini pone la questione della possibile distinzione tra un cinema di prosa e un cinema di poesia. Secondo il grande intellettuale friulano, gli archetipi delle immagini filmiche si muovono essenzialmente tra due poli: quello soggettivo della memoria e del sogno e quello oggettivo della realtà esperibile vista con gli occhi. Il cinema di poesia può ovviamente esistere grazie all’esistenza del polo soggettivo, ma esso da solo non basta a realizzarlo. Per questo è indispensabile quella che Pasolini definisce “soggettiva libera indiretta”, una sorta di corrispettivo cinematografico del discorso indiretto libero. Essa perciò si verifica quando l’autore si immerge nel personaggio acquistandone non solo la psicologia, ma anche la lingua. In sostanza la macchina da presa non resta agganciata al punto di vista o al piano di ascolto del personaggio, ma partecipa emotivamente a quel complesso sistema che determina la sua visione del mondo.
Un uso quindi spregiudicatamente libero della grammatica filmica, una sintassi “poetica”, laddove poesia diventa sinonimo di trasgressione della norma.
Godard e Antonioni sono i principali esempi portati da Pasolini a suffragio della sua esposizione, ma è ovvio come il Pasolini teorico, nel parlare del cinema di poesia, pensi in primis al Pasolini artista. L’approcciarsi alla regia più che da autodidatta da vero e proprio corpo estraneo alla dimensione pratica del fare cinema, ha permesso a Pasolini di poter elaborare da subito uno stile libero e spregiudicato, corroborato dal rigore intellettuale proprio dello scrittore militante e dalla passione smisurata del novizio entusiasta. È, il suo, cinema di poesia all’ennesima potenza sin dalle prime sequenze del film d’esordio, Accattone (uno stile che, tra l’altro e risaputamente, non convinse Fellini, che con la Cineriz aveva finanziato i sopralluoghi e l’avvio del progetto salvo poi ripensarci), così che, scantonando l’eterno gioco dell’uovo e della gallina, se di solito la teoria precede la pratica, nel caso del Pasolini regista pare avvenire il contrario, ovvero che il cinema di poesia prima viene fatto e solo in seguito teorizzato.
Ma il primo film, e il successivo Mamma Roma, per quanto stilisticamente afferenti all’idea esposta nei saggi di Empirismo eretico, sono ancora legati a quell’idea naturalistica di fotografia sfacciatamente fedele del sottoproletariato avviata con i grandi romanzi degli anni Cinquanta, Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ergo, se l’impatto visivo trasuda e trabocca poesia, la stretta logica consequenziale di causa-effetto rende ancora indispensabile pure la prosa.
È nel momento in cui il “ciclo dei vinti” pasoliniano dedicato al sottoproletariato arriva all’ultima stazione, il corto La ricotta, che si prepara il terreno per il gran salto. L’episodio – di un film che reca le firme prestigiose, oltre che di Pasolini, di Godard, Rossellini e Gregoretti, con un titolo che è un buffo acronimo delle loro iniziali, RoGoPaG – è uno spartiacque decisivo nella filmografia pasoliniana: se da un lato la storia maestra (la paradossale e tristissima vicenda del sottoproletario Stracci, comparsa a Cinecittà per sfamare la moglie e i moltissimi pupi) è il congedo dalla narrazione delle borgate sottoproletarie, la cornice (un animato set dove un regista marxista sta girando gli ultimi ciak di un film sulla vita di Cristo) è il trampolino di lancio verso un radicale lirismo, a tratti del tutto stupefacente.
Se nella successiva e nutritissima filmografia di Pasolini si dovesse individuare la più alta e riuscita traduzione pratica del cinema di poesia, essa sarebbe senza dubbio Il Vangelo secondo Matteo, capolavoro realizzato nel 1964, dopo che l’accantonamento del progetto originario, il famoso film “africano” intitolato Il padre selvaggio, che peraltro non verrà mai girato.
Il Vangelo di Pasolini è, a priori, un ossimoro, una contraddizione in termini, uno scandalo che scuote e sorprende, tanto il mondo cattolico che quello della sinistra più radicale. In altri termini, l’idea non piace a nessuno, è un film scomodo a prescindere. Si rivelerà un capolavoro assoluto, che tutti, anche se tra i denti e con malcelato disappunto, saranno costretti a riconoscere (a onor del vero gli apprezzamenti più sinceri arriveranno dal mondo cattolico, decisamente più contrita la posizione comunista).
Scriveva Pasolini al produttore Bini, illustrandogli il progetto: «Per me la bellezza è sempre una “bellezza morale”; ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica; il solo caso di “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo».
Puro cinema di poesia, si diceva. Fedelissimo al testo canonico di Matteo (“non esiste poesia più alta dei versetti del vangelo di Matteo”, diceva sempre Pasolini a margine della lavorazione del film), il marxista Pasolini, in grado come nessuno di penetrare il più arcaico, sanguigno e vitale misticismo popolare, riesce a restituire tanto il materiale quanto lo spirituale, ovvero l’essenza di un dio fatto uomo, mistero insondabile ed elementare al tempo stesso che soltanto la poesia può rendere. Così Pasolini arriva dove nessuna esegesi era mai riuscita a spingersi, a un Cristo di tutti e per tutti, restituendo in un colpo solo l’idea nazionalpopolare di Gramsci e la smania di giustizia del cristianesimo sociale di Manzoni.
L’opera, girata tra i sassi di Matera (il prodigioso e rapidissimo sviluppo industriale di Israele aveva reso la location più ovvia, la Palestina, del tutto inservibile, come spiega lo stesso Pasolini in un celebre documentario, preferendo la selvaggia Ciociaria e il Materano, ancora incontaminati e barbari, e perciò intrisi di spiritualismo, come la Galilea che fu) è di una bellezza accecante, invasiva, a tratti spaventosa, che afferra e commuove.
La macchina da presa fissa, ieratica e avvolgente al tempo stesso, è implacabile, scruta e sonda i volti – ancora una volta, soprattutto questa volta, violentemente popolari, sottoproletari, oscenamente subalterni – in ogni ruga, ogni increspatura. È così addosso ai personaggi, vivi come non mai nel loro non essere attori, aderenti come nessuno all’orda di meravigliosi pezzenti devoti della prima ora delle predicazioni del Nazareno, da essere quasi insostenibile, da compiere con la più spietata naturalezza quel prodigio teorizzato in Empirismo eretico, ovvero aderire non ai personaggi, ma al loro mondo. Così la macchina da presa resta fissa eppure si muove, sanguina, si indigna, si incazza, si fa rivoluzionaria insieme a Gesù Cristo.
Perché il Cristo di Pasolini è non un rivoluzionario, ma è la Rivoluzione. È il profeta venuto a portare la spada, a cacciare i mercanti del tempo, a redimere gli ultimi e a restituirgli dignità e coscienza, a urlare alle folle il suo sdegno per ricchi e farisei, proclamando al contempo come il Regno dei Cieli appartenga agli ultimi dal cuore puro Ma è una rivoluzione priva del peso dell’ideologia, terrigna, autentica, tragica. Per il ruolo del Cristo Pasolini aveva inizialmente pensato a un poeta, Ginsberg oppure Evtusenko. Entrambi, ne avrebbero evidenziato il carattere intellettuale, programmatico, ideologico. Poi, in un colpo di genio, affidò la parte a uno sconosciuto studente spagnolo, Enrique Irazoqui, capace di trasportare, con i suoi occhi ingenui e severissimi, accesi e malinconici, la rivolta nella più pura dimensione poetica.
Negli insistiti primi piani, fissi e interminabili, (indimenticabile la sequenza del discorso della montagna), che rimandano alla splendida Giovanna D’Arco di Dreyer, c’è l’essenza di questo Cristo rivoluzionario e umanissimo, ultra sacro proprio perché desacralizzato. Il volto, la poesia del volto, diventa così al tempo stesso corpo e spirito, condizione interiore e paesaggio. Una sinfonia poetica di volti, compresa la messinscena senza pudore della deformità (il lebbroso, lo zoppo), splendida e terribile.
Non solo volti, ma anche silenzi. L’uso contrappuntistico e stupendamente spericolato della musica, mescola i Canti Rivoluzionari Russi con Bach, Mozart e Prokofiev. E con il silenzio. Oltre a Dreyer, c’è tutta l’anima della storia più sublime del cinema muto. La sequenza più terrificante, la strage degli innocenti, è resa con il più insostenibile dei silenzi. Un grido muto che stordisce, frantuma, stravolge come le pietre di quella Gerusalemme che Cristo promette di rivoltare.
Quella che pareva un’eresia – un film su Gesù girato da un ateo – diventa così di colpo la più logica delle opere d’arte. Pasolini l’eretico, il corsaro, lo scandalo incarnato, dà vita – e anima, soprattutto anima – alla più autentica e sincera opera biblica della storia del cinema.
Una gioia per gli occhi. E per il cuore. Buon Natale.
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