Il matematico americano David Sumner (Dustin Hoffman), e sua moglie Amy (Susan George), si trasferiscono nella casa d’infanzia di lei, in Cornovaglia. Alla ricerca di una vita pacifica e tranquilla, la coppia si scontra presto con l’ostilità del clan Hedden, di cui Charlie Venner (Del Henney), ex amante di Amy, è uno dei membri più carismatici. Man mano che la coppia si sgretola, la virilità di David, debole e codardo, verrà messa alla prova dalle provocazioni degli abitanti del villaggio e dalla violenza che lo circonda…

Opera oggi osannata, ieri condannata dalle farneticazioni di una critica miope e ideologizzata (descritto all’epoca come un film fascista dalla grande critica americana Pauline Kael), Cane di paglia (Straw Dogs, 1972), di Sam Peckinpah, è un film moderno e inquietante, la cui audacia formale (e tematica) non cessa di sollevare interrogativi. La controversia ha origine da una scena di stupro, lunga, cruda ed estremamente violenta. Questa scena primordiale, asse del film, nasce dalla riflessione reale di un cineasta che ha il merito di porre domande sulla rappresentazione di questo atto (e più in generale della violenza) sullo schermo. Questioni di durata, montaggio, punto di vista, posizione della cinepresa… Domande di cinema, che lungi da ogni controversia, costringono lo spettatore a mettere in discussione il suo status di testimone (voyeur?). Oggi Cane di paglia ha trovato il suo posto nella storia del cinema, accanto ai suoi fratellini altrettanto rudi, oggetto di polemiche come Clockwork Orange, Dirty Harry e Deliverance. Film che avevano l’ambizione di confrontarsi con la violenza di un’epoca e che, ciascuno a suo modo, scatenarono polemiche sproporzionate.

Stupro… Proprio come Kubrick e Boorman nei loro due film, Peckinpah fa di questo crimine la chiave del suo film. La scena qui è la logica conseguenza di vari elementi narrativi messi in atto nel primo terzo del film: la codardia di David Sumner, la frustrazione sessuale di Amy e la bestialità del clan Hedden. Fin dall’inizio del film, i pezzi di un puzzle fatale si compongono per condurre all’inevitabile: che si tratti della prima apparizione di Amy, inquadrata solo sul seno nudo eretto; del furto delle mutandine da parte della banda Hedden; o anche la stessa metafora della trappola per lupi, tutto ci porta allo stupro di Amy da parte del suo ex amante Charlie Venner poi emulato da Norman Scutt (Ken Hutchincon). Impotente di fronte all’inevitabile, lo spettatore non è che all’inizio dell’orrore. Non offrendo alcun punto di vista morale, spingendosi addirittura al punto di alternare inquadrature soggettive dello stupratore e di Amy, Peckinpah ci lascia alle prese con uno stupro in cui la vittima si mostra, man mano che la scena avanza, sempre più consenziente. Un dettaglio cruciale che fece scandalo all’epoca, alimentando l’immagine misogina del regista de Il mucchio selvaggio, ma che soprattutto tende a sostenere uno dei temi principali del film: la lacerazione di una coppia con evidenti frustrazioni sessuali…

Fulcro di Cane di paglia, lo stupro segna anche il punto di svolta verso un epilogo sanguinoso… Una vera e propria deflagrazione catartica in cui ritroviamo tutto il tocco di Peckinpah, soprattutto nella sua consumata arte del montaggio. Considerato a lungo uno dei film più “rifilati” della storia del cinema, Cane di paglia procede nell’abisso dell’incertezza fino all’accelerazione nell’ultima ora: slow motion, montaggio esplosivo, successione di ultra-inquadrature brevi e violenza iperrealista …

Un epilogo, in definitiva, abbastanza “occidentale” nel tono (la coppia, reclusa in una casa, si difende da un’orda selvaggia) che segna la morte del matrimonio e finisce per schiacciare David che, alla fine, si rivela bestiale e feroce al pari degli altri. Pacifista nell’animo, colui che aveva lasciato gli Stati Uniti per sfuggire alla violenza delle rivolte, alla fine finisce in un bagno di sangue. I bei discorsi non reggono più, solo la violenza risolve i conflitti. Debole e codardo, abbandonando le sue convinzioni (e allo stesso tempo sua moglie – vedi l’ultima scena), David è come gli antieroi del cinema americano dell’epoca: complesso e totalmente perduto (“Non conosco la via giusta”,”Non fa niente, neanch’io…”).

Con un cupo pessimismo, il film di Peckinpah si inserisce nel cinema americano degli anni ’70, quello di Boorman, Penn, Altman, Hopper, Schlesinger e altri. Un cinema con una narrazione elaborata e destrutturata (i numerosi flash che punteggiano il film, soprattutto durante le scene di massa), con un marcato formalismo (un acuto senso dell’inquadratura e del montaggio) e con scenari oscuri, persino disperati. Servito da uno dei più grandi attori del suo tempo, Dustin Hoffman, allora all’apice della sua gloria e che era appena passato dal Piccolo grande uomo, Il laureato e Un uomo da marciapiede, supportato da una superba Susan George (scelta che Hoffman tuttavia non accettò mai), il film è anche un sapiente elaborato formale, che gioca sui toni grigi degli scenari e su una sorprendente colonna sonora di Jerry Fielding.

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