Fortezza ritenuta inviolabile avendo “ospitato” i più grandi criminali (Al Capone, Machine Gun Kelly, ecc.), la prigione di Alcatraz ha nutrito la fantasia dei registi, in meglio – Don Siegel con Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz, 1979); e talvolta in peggio – Infiltrato speciale (Mission Alcatraz, 2002), con l’inguardabile Steven Seagal. Uno dei suoi detenuti più famosi è Robert Stroud, condannato a dodici anni per omicidio prima di ricevere l’ergastolo per aver ucciso uno dei suoi compagni di reclusione. Durante i cinquantaquattro anni trascorsi dietro le sbarre (di cui diciassette alla “Roccia”), scoprì la passione per gli uccelli e si dedicò allo studio di ornitologia fino a pubblicare numerosi lavori riguardanti le varie malattie e patologie dei canarini. Percepito da molti come il portabandiera dei condannati all’isolamento nelle carceri americane, fece spesso notizia sui media e destò l’ira dell’amministrazione penitenziaria ricevendo il sostegno di numerose associazioni che si battevano contro questo sistema carcerario.

Fin dall’inizio, dove il personaggio di Tom Gaddis (interpretato da Edmond O’Brien), autore del libro Birdman of Alcatraz che ha ispirato L’uomo di Alcatraz (Birdman of Alcatraz, 1962), di John Frankenheimer, inizia a raccontare la storia di Stroud davanti alla cinepresa, il film mira a rivolgersi direttamente allo spettatore. L’isola di Alcatraz, visibile nella planimetria, si presenta come un’attrazione per i turisti, con l’organizzazione di crociere per scattare foto del famoso penitenziario. Negli anni ‘50 Robert Stroud era diventato una specie di leggenda, il libro del giornalista cercava di mostrare agli americani, ancora sordi alla sua condizione, chi era l’uomo dietro la notizia. Lo stesso desiderio di risvegliare le coscienze, questa volta attraverso il cinema, è portato avanti da Burt Lancaster (vincitore della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1962 per questo ruolo). Il divo di Hollywood, venuto a conoscenza delle condizioni del vecchio dal libro di Gaddis, è la vera mente, sia davanti alla macchina da presa (performance impressionante e piena di rabbia contenuta) che dietro le quinte.

Dopo aver acquistato i diritti dell’opera per trasporre sul grande schermo la figura dell’“ornitologo di Alcatraz”, ne diventa anche il produttore (insieme al collega Harold Hecht), indebitandosi per produrre il lungometraggio tramite la sua compagnia Norma. Lo stesso Lancaster – dopo aver fatto saltare il regista prescelto, il britannico Charles Crichton – preferisce John Frankenheimer per dirigerlo (anche se il loro rapporto era stato piuttosto teso durante le riprese di Il giardino della violenza l’anno precedente) e arriva addirittura a contrapporsi pubblicamente con l’Amministrazione che vedeva molto male questo progetto. Attacco virulento contro un sistema che distrugge l’individualità, il film si presenta sotto forma di una storia ellittica che copre più di cinquant’anni di vita del criminale. La sceneggiatura descrive, attraverso scene a volte toccanti (quando accoglie un passerotto ferito) o comiche (gli scambi con il personaggio di Feto, interpretato da uno strepitoso Telly Savalas, sul suo canarino in procinto di deporre le uova), la difficile vita quotidiana in isolamento, ma anche l’empatia, la solidarietà e la fraternità che tuttavia permangono. Come dimostra la scena in cui Albert (Hugh Marlowe), la guardia assegnata da anni alla cella di Stroud, gli ricorda che non è suo nemico e che, in fondo, è anche lui condannato a essere rinchiuso in questa prigione con i detenuti, esigendo solo un po’ di rispetto, come residuo di cittadinanza in questo universo che mira a distruggere la più piccola particella di umanità. Birdman of Alcatraz presenta un antieroe condannato in partenza, incatenato alla sua condizione di individuo violento, incapace di controllare i propri impulsi, la propria aggressività (solo la cura dei suoi uccelli sembra calmarlo) e schiavo del rapporto con la madre (Thelma Ritter), possessiva e gelosa, della quale non riesce a liberarsi.

Presentando Stroud come un ribelle che resiste all’autorità, una figura di ribelle romantico, il lungometraggio adempie al suo scopo al punto da attirare la compassione e la simpatia dei molti che si erano impegnati nella lotta per la sua liberazione, unendosi al movimento portato avanti da Lancaster e Gaddis. Tuttavia, nel suo libro Beyond the Grids, Doug Headline descrive una realtà completamente diversa. Lontano dall’immagine di uomo onesto e irreprensibile, che lotta per i suoi valori (nel film, i due omicidi che commette vengono descritti come una combinazione di circostanze, o addirittura incidenti accaduti mentre cerca di difendere la sua ragazza e poi sua madre), l’autore dipinge il ritratto di un individuo freddo e manipolatore, che non esita a copiare interi brani dai libri dedicati all’ornitologia per farli propri. Scrive così che alcuni americani «non si batterono per la liberazione del vero Stroud ma per quella di Burt Lancaster»1.

Infatti, se il film ci mostra un detenuto che ha passato così tanti anni dietro le sbarre che la libertà lo spaventa e arriva a preferire la vita quotidiana nell’isolamento (come quel passerotto, terrorizzato dal mondo esterno, che ritorna sempre nella sua cella, come rassicurato dalla sua gabbia), la realtà è che preferì, in un lampo di lucidità, non uscire a causa dei suoi impulsi omicidi. Violento e brutale, si rivelò anche un pervertito sessuale che trascrisse le sue fantasie di pedofilia e necrofilia in numerose opere, ben lontane dalla sua passione per gli uccelli. Se L’uomo di Alcatraz si distingue dal semplice volantino militante, è grazie alla regia di John Frankenheimer che, lungi dal prendere una posizione netta (a differenza dell’impegnata sceneggiatura di Guy Trosper), sceglie di fare di Robert Stroud un personaggio puramente cinematografico. I titoli di testa iniziano con una precisazione, che suona come una nota di intenti: “La storia di un vero uomo…”. Piuttosto che scegliere la solita formula “Tratto da una storia vera”, il regista indica il suo desiderio di parlare soprattutto di un essere umano, con i suoi difetti e le sue contraddizioni.

Questa attenzione all’individuo si avverte attraverso gli innumerevoli primi piani sul volto di Lancaster, come una trascrizione dell’immobilità, del torpore del personaggio bloccato dietro le sbarre della sua prigione. Allo stesso modo, il direttore della fotografia Burnett Guffey (sontuosa la sua immagine in bianco e nero), sceglie l’illuminazione in chiaroscuro per far emergere gli attori dall’oscurità, e l’uso di obiettivi grandangolari rafforza la sensazione di claustrofobia. Il regista ha scelto di filmare in condizioni reali, una cella della prigione è stata costruita nello studio e le cineprese dovevano essere adattate all’ambiente angusto, senza “barare”, da qui l’uso di lunghezze focali corte.

Al di là della sensazione di confinamento offerta da inquadrature molto composte, Frankenheimer si permette anche di cogliere la lunghezza delle ore, dei giorni e dei mesi che passano, saltando diversi anni nel montaggio, concedendosi numerose ellissi o addirittura allungando il tempo durante alcune sequenze. Il regista filma pazientemente per lunghi minuti la nascita in tempo reale di un uccellino che fatica a uscire dal suo uovo, come metafora di ottimismo e spinta alla vita in un universo pesante e mortale. Il motivo della gabbia ritorna numerose volte, come le ombre minacciose delle sbarre che sembrano invadere l’inquadratura e tagliare lo spazio o le voliere che il protagonista realizza a mano, e che finiscono per occupare tutto lo spazio della sua cella. Una gabbia nella gabbia, allestita a forma di bambole russe, che riporta alla condizione del condannato (o anche dell’Uomo in generale) che, qualunque sia la prigione da cui evade, non sarà mai del tutto libero (la sua famiglia, i suoi impulsi, il Sistema… sono tutti ostacoli). Come climax, la sequenza in cui, ubriaco, Stroud apre tutte le gabbie per liberare gli uccelli e offrire loro quella che definisce una “illusione di libertà”.

Questa immagine prefigura l’imponente scena dell’ammutinamento e le sue inquadrature distorte che creano disagio – un marchio di fabbrica per Frankenheimer, che quattro anni dopo girerà Operazione diabolica (Seconds, 1966)- da cui emerge la sgradevole sensazione che ogni desiderio di fuga si tradurrà in un fallimento programmato. Questa perdita di individualità, combattuta da Gaddis, il regista la simboleggia anche attraverso il fatto che Stroud viene chiamato in modo diverso a seconda della persona con cui si confronta: Bob, Robbie, anche “numero 594” sono tutti soprannomi datigli di volta in volta da sua madre, le guardie, l’Amministrazione, come testimonianza di questa disumanizzazione. Allo stesso modo, la comunicazione tra i prigionieri non è più orale, ma usano il codice Morse, battendo sui tubi della prigione, per trasmettersi messaggi. Niente più nomi, niente più parole, l’uomo non è più definito se non dalle sue azioni, spesso violente, e dai suoi gesti, talvolta segnati da grande dolcezza. I crediti consistono, in questo senso, in primi piani di mani che tengono delicatamente degli uccelli sul palmo. Questa benevolenza si ritrova lungo tutto il film nelle attenzioni dell’eroe verso le sue piccole protette, che accoglie, nutre, cura, come una scintilla di calore e di umanità in un ambiente freddo e sordido.

Pur spinto dal desiderio di restare fedele alla realtà di un uomo divenuto simbolo della protesta, L’uomo di Alcatraz evita la trappola del film documentario grazie ad una regia inventiva e ricca di simboli. Liberandosi dai vincoli di un lavoro su commissione e appropriandosi di un progetto militante portato avanti dall’inizio alla fine da un onnipotente Burt Lancaster, John Frankenheimer non segue la stessa strada del suo protagonista trovando nella sua passione (il cinema invece dell’ornitologia), un modo per uscire dalla propria condizione.

Savalas è candidato agli Oscar quale attore non protagonista, la sua caratterizzazione è strepitosa. L’attore dichiara che quando gli fu assegnato il ruolo di Feto Gomez, si sentiva “in soggezione” al cospetto di Lancaster, che ritiene colui che lo ha lanciato nella carriera: «Quando ero al Dipartimento di Stato come direttore esecutivo dei servizi di informazione, intervistavo Harry Truman e Dwight Eisenhower o Andrei Gromyko. Non sono mai stato nervoso per questo, non sono mai stato nervoso con uomini che governavano il mondo. Ma quando ho firmato per fare L’uomo di Alcatraz, all’improvviso ero in un film con Burt Lancaster. Ero in soggezione. Era una forma di devozione. Ero senza parole. Posso capire le persone che vengono da me per gli autografi».


[1] Doug Headline, Au-delà des Grilles, Wild Side, 2018

[2] Special to the News, Boca Raton News, 3 dicembre 1975

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