Michael Reynolds (Woody Harrelson) è un rinomato oncologo con un’auto da 175.000 dollari e una casa da diversi milioni. Brandon “Blue” Monroe (Jon Seda), malato terminale, è un carcerato sedicenne che lo sequestra durante una visita di controllo. Insieme, si dirigono verso un luogo mitico di cura Navajo mentre la polizia è alle loro calcagna…

Anche se Verso il sole (Sunchaser, 1996) non ha ottenuto alcun riconoscimento particolare per i posteri, è il film testamento di Michael Cimino, cineasta maledetto per eccellenza, che ha intrecciato capolavori spesso con catastrofici fallimenti commerciali.

Era sicuramente difficile reggere il ritmo dopo Il cacciatore o I cancelli del cielo, ma Sunchaser ha l’arduo compito di concludere il lavoro del regista statunitense contemporaneo (insieme a Oliver Stone), che ha maggiormente demistificato l’America e il suo cosiddetto “Sogno”.
Verso il sole ruota attorno a uno scontro caotico. Quello, a Los Angeles, tra Michael Reynolds e “Blue” Monroe, tra la borghesia e i giovani nativi delinquenti. Il secondo è esplicitamente violento mentre il primo lo eguaglia, ma in modo più pernicioso, più simbolico. Si tratta di due visioni del mondo, due modi di vivere costretti a coabitare e totalmente inconciliabili. Per Michael la violenza dei ghetti è un abominio, per “Blue” è la normalità della vita quotidiana. L’incubo di uno è la realtà dell’altro. Il tema del dialogo è al centro di Sunchaser. Come possono capirsi un ricco oncologo, trentenne, che presto diventerà capo dipartimento, e un giovane nativo americano di razza mista di 16 anni condannato a morte dalla malattia?
Questo confronto si sviluppa nella metafora americana per eccellenza: il viaggio su strada (on the Road). Un percorso verso una montagna sacra, a bordo di una Porsche, poi di un macinino, infine di una Cadillac: due Americhe che si scontrano. Il conflitto avviene ovviamente a livello generazionale, ma non solo. Il piano linguistico innanzitutto. Il gergo e il linguaggio volgare di “Blue” vengono criticati da Michael in diverse occasioni, in un atteggiamento costantemente sobrio e sprezzante. Per forza di cose, il medico finirà a sua volta per deflagrare, arrabbiarsi, insultare e comportarsi come il giovane teppista.

L’altro livello di confronto tra Michael e “Blue” è quello culturale. La radio in macchina diventa una questione di dominio dell’uno sull’altro, per sapere se preferiremo ascoltare rap o rock. Uno scontro che si conclude con quello che sembra uno stallo verbale messicano tra Michael, la dottoressa Renata Baumbauer (Anne Bancroft), che li accompagna per un po’, e “Blue”. Laddove i due medici si confrontano con citazioni che si contrappongono alla scienza e alla spiritualità, “Blue” conclude il dibattito con una citazione di Tupac, altrettanto rilevante quanto le altre. Tutto è, in primo luogo, soggetto a confronto (e contrasto) in Verso il sole, ma ogni volta, dopo il caos arriva la pace.
L’ultimo film di Michael Cimino è allo stesso tempo la constatazione di un’America spezzata nella sua essenza quanto un invito alla riconciliazione. In particolare, tra gli abitanti delle metropoli e delle zone rurali degli Stati Uniti. Un ritorno alle origini che si incarna nella riscoperta della bellezza del territorio Navajo, nell’incontro con i suoi abitanti, e nel confronto con i propri pregiudizi con la realtà. Un’armonia che Cimino mostra, per esempio, durante una scena lirica, quando i due compagni di sventura si uniscono ai Navajo, accodandosi con l’automobile (per nascondersi dai posti di blocco della polizia) ai loro cavalli che seguono lo stesso percorso nel cuore della Monument Valley. Il confronto si gioca anche tra Michael e il suo modo di vivere, la sua corsa per il successo, per la casa più bella, per la carriera migliore. Il tempo trascorso accanto a “Blue” lo fa uscire dalla sua apatia egocentrica, dalla sua visione degli altri fino ad allora arrogante e spaventata. Michael incarna questa America ricca, bianca, borghese – come ci ricorda spesso “Blue” – che giudica, ma soprattutto ha paura dell’Altro, o peggio, che l’apertura agli altri possa distruggere i suoi successi. Allo stesso modo, il tempo trascorso con Michael allontana gradualmente “Blue” dal suo odio per ciò che Michael, ma soprattutto la sua classe sociale, rappresenta.

Ma dove si colloca questo divario che permette a individui così lontani tra loro di capirsi? Per Cimino nella capacità degli esseri umani di commuoversi, e ancor più di superare il dolore. Quella di un fratello maggiore che muore in ospedale, che implora di porre fine alle sue sofferenze; quella di un giovane picchiato dal patrigno, che porta alle disastrose rappresaglie di un bambino. È questo legame indissolubile, quello dell’emozione, della condivisione di un dolore, che può abbattere tutte le barriere tra due individui e riconciliarli.
Sono proprio questi gli spettri della divisione che Michael e “Blue” affrontano, nel loro viaggio. Spettri che infestano gli Stati Uniti, che Michael Cimino ha affrontato regolarmente nel suo lavoro, smantellando i crudeli spauracchi del Paese, esposti per troppo tempo per coprirne i demoni. Sunchaser stigmatizza questa divisione, o meglio questa segregazione, nel cuore riluttante della filosofia americana. Prima, quella tra coloni e nativi americani, poi quella contro gli afroamericani. Lo spaventapasseri agitato in Sunchaser è quello dell’individualismo, il ripiegamento su sé stessi nel cuore del “sogno americano”, un ostacolo al rapporto con gli altri.

Ma se è il più evidente, non è l’unico. L’altro demone, più discreto ma onnipresente nel film, è quello della virilità ossessiva e, quale vaso comunicante, dell’omofobia. Quasi tutti gli uomini incontrati nel film, a cominciare da “Blue”, si insultano a vicenda definendosi “frocio”, oppure si affrettano a ostentare il proprio potere, ad atteggiarsi da “duri”. Un tratto che, purtroppo non poche volte nel cinema di Cimino, è stato scambiato per autocompiacimento. Basti guardare a chi, per esempio, ha interpretato il finale de Il cacciatore come un’esaltazione del militarismo americano, senza coglierne la dolorosa ironia.

Tuttavia, è impossibile affermare che Verso il sole sia privo di difetti. La forma della sua storia non riesce ad eguagliare la sua sostanza, e il film trova nella costruzione le sue principali insidie. Un certo sentimentalismo emerge dal racconto di questo medico che accompagna un giovane verso la sua inevitabile morte, incarnato anche da alcuni momenti musicali composti da Maurice Jarre. Soprattutto perché le immagini inserite, che servono ad accentuare la dimensione simbolica, sono particolarmente goffe. D’altra parte, l’ultima inquadratura del film riecheggia tristemente la fine della carriera di un grande regista. Nella scena finale del film, dopo che i due eroi hanno finalmente individuato la famosa montagna sacra, nonché “l’uomo medicina”, le condizioni di “Blue” peggiorano, la sua morte inevitabile diventa tangibile. Michael e “Blue” si congedano e, mentre uno scende dalla montagna per tornare, sconvolto, alla sua vita precedente, “Blue” trova finalmente il lago salvavita che tanto desiderava. Corre verso la meta, in un’inquadratura ampia che privilegia il paesaggio, prima di evaporare bruscamente, mentre osserviamo i vortici della sua scomparsa nell’acqua del lago. Il giovane si offre una degna fine poetica, solitario, rassegnato ma certamente felice. La fine di un personaggio, la fine di un film, ma soprattutto la fine di un cineasta, recluso per anni fuori dal sistema hollywoodiano, alla ricerca di una conclusione luminosa.

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