Il titolo di questo articolo riprende alla lettera una citazione di Ray Bradbury, dal romanzo Fahrenheit 451, che apre anche Bebelplatz di Fabio Stassi, pubblicato da Sellerio. Bradbury è uno scrittore di fantascienza, ma i pompieri che, in Fahrenheit 451, hanno il compito di incendiare le abitazioni di tutti quelli che conservano dei libri sono un’eco delle devastazioni organizzate dal nazismo a partire dal 1933. Ma che differenza passa tra le Bücherverbrennungen (i roghi dei libri)durante il nazismo e il “falò delle vanità” (1497) voluto da Girolamo Savonarola? E risalendo molto indietro nel tempo, al 267 d.C., non fecero la stessa cosa gli Eruli, tribù germanica che aveva occupato la Grecia e dato alle fiamme migliaia di rotoli conservati nelle biblioteche? E gli antichi romani? Anche loro non scherzavano: uno dei casi più celebri fu la distruzione, per decreto imperiale, nel 25 d.C., delle opere di Cremuzio Cordo, storico repubblicano scomodo al potere, perché nei suoi Annali aveva elogiato Bruto e Cassio, i cesaricidi, fautori della repubblica. E che dire del nipote di Gengis Kahn che a capo dei suoi mongoli incenerì nel 1258 la biblioteca di Baghdad, la Bayt al-Hikma, la casa della Sapienza, con il suo mezzo milione di volumi?
Per tacere dei libri censurati-vietati-distrutti, innumerevoli, dall’antichità passando per l’Inquisizione con il suo Index librorum prohibitorum, che verrà abrogato soltanto nel 1966 sotto il pontificato di Paolo VI. “In pochi giorni -scrive Stassi- trascrissi sul mio taccuino l’elenco di tutti i roghi di libri di cui è rimasta, nella «storia umana», almeno una diceria. Niente era stato risparmiato, e da nessuno: l’Escorial, Bagdad, Alessandria, le tavolette sumere e i libri della commedia di Aristotele, i papiri di Ercolano, la Torah, il Talmud, la Bibbia, il Corano, i testi contrari alla dottrina cattolica ma anche a quella islamica, Pietro Abelardo e Arnaldo da Brescia, il volgare e l’arabo, l’ebraico, il latino, i poemi classici e i trattati di filosofia, i libri erotici e i manoscritti maya, Voltaire, Diderot e Rousseau, La capanna dello zio Tom e il J’accuse di Ėmile Zola. Califfi, vescovi d’Italia e del Messico, frati predicatori, imperatori cinesi, romani e francesi, concili e tribunali ecclesiastici si erano accaniti contro tutto ciò che ritenevano avverso, immorale o blasfemo. La letteratura, riassunse Antonio Tabucchi, ha gli stessi nemici di sempre, gli stessi detrattori, avversari, interni ed esterni, e gli stessi sicari”.
Nell’ultimo capitolo (Per una breve storia di fuochi e manoscritti. Una cronologia ragionata) di Bebelplatz, Fabio Stassi fa un lungo elenco di autori e opere scomodi o ritenuti tali, dall’antichità fino ai tempi moderni. Il perno sul quale si incardina la narrazione è comunque rappresentato dai roghi dei libri ordinato e realizzato in tutta la Germania dal regime nazionalsocialista. Tutto parte dal 10 maggio 1933, quando gli studenti di 34 città universitarie tedesche destinarono alle fiamme 25.000 opere di svariati autori, fra i quali Albert Einstein, Sigmund Freud, Ernest Hemingway e Stefan Zweig. Anche in Bebelplatz, centro di Berlino, allo scoccare della mezzanotte migliaia di volumi furono ridotti in cenere. Joseph Göbbels proclamava: “l’uomo tedesco del futuro non sarà più un uomo fatto di libri, ma un uomo di carattere”.
A Bebelplatz, la notte del 10 maggio 1933 furono gettate nel fuoco le opere di 94 scrittori tedeschi e di 37 autori stranieri (131 in tutto). Non c’è, in questa prima lista, nessun italiano. Si incontrano, invece, i nomi di Isaac Babel’, Bertolt Brecht, Alfred Dõblin, John Dos Passos, Maksim Gor’kij, Klaus e Heinrich Mann, Joseph Roth, Arthur Schnitzler, Stefan Zweig, ma c’erano anche Ernest Hemingway ed Eric Maria Remarque con il suo Niente di nuovo sul fronte occidentale, uscito nel 1928, subito diventato un successo internazionale: dieci anni dopo Hollywood ne trarrà un film vincitore di due premi Oscar.
“L’arte degenerata”
È il parossismo di un lungo processo di rimozione compiuto su una cultura (arte, letteratura, musica) ritenuta aliena rispetto ai valori propugnati dal nuovo regime. Ad alimentare i falò e le pire infuocate contribuì anche una concezione distorta e fanatica: quella di arte degenerata, che delle fiamme divoratrici di carta è una funerea premessa ideologica. A introdurre il concetto di “degenerazione” (Entartung, in tedesco) nell’arte era stato, per ironia della sorte, un medico ebreo, Max Nordau, seguace di Cesare Lombroso: Nordau aveva intitolato Entartung un suo libro del 1892. I nazisti lo elessero a caposcuola sviluppandone le teorie. Il concetto nazista di arte corrotta includeva tutto il meglio e le novità delle avanguardie novecentesche: cubismo, dadaismo, espressionismo, il Bauhaus, la musica dodecafonica, tutti prodotti del bolscevismo culturale, secondo i nazisti, di una “cultura dei negri” come la chiamavano con disprezzo in Turingia. I pericoli additati dal nuovo fanatismo ariano si chiamavano socialismo, liberalismo, cosmopolitismo, antimilitarismo.
La prima lista nera dei libri stilata su incarico della Lega per la cultura tedesca risale a un giovane bibliotecario nazista di ventinove anni, Wolfgang Herrmann. I criteri alla base della black list sono da ricondurre a tre categorie di nemici del popolo tedesco: la letteratura pacifista e antimilitarista sulla guerra mondiale (per es. Erich Maria Remarque e Stefan Zweig); la letteratura di denuncia sociale (Heinrich Mann, Jack London), e la letteratura sociale ma con tendenze riformatrici e rivoluzionarie (Bertolt Brecht, autori russi contemporanei). “Nell’esprimere lo Zeitgeist, lo spirito di quel tempo, Herrmann anticipa tutti, anche se, come dichiara apertamente, a ispirarlo è Mussolini. «Libro e fucile. Trattare i libri come armi». Ray Bradbury, in Fahrenheit 451, userà le stesse identiche parole: «Un libro è un fucile carico (…). Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma, castriamo la mente dell’uomo». Nel 1934 Herrmann sarà nominato direttore della biblioteca di Königsberg”.
Un atlante della letteratura “dannosa e indesiderata”
Durante un tour negli istituti di cultura italiani di città tedesche come Amburgo e Monaco, Fabio Stassi attraversa le piazze delle Bücherverbrennungen, i roghi dei libri, e risale la memoria del fuoco e delle censure, dei primi bombardamenti aerei sui civili, del saccheggio di librerie e biblioteche. Alla fine, compone un piccolo atlante della letteratura “dannosa e indesiderata” e rintraccia sette nomi di scrittori e letterati italiani banditi dal nazionalsocialismo; due di essi sono classici della letteratura latina: Ovidio e Petronio. Una nazione come la Germania, che aveva dato all’Europa fra i più autorevoli studiosi di filologia classica, era arrivata al punto di considerare corruttrici e pericolose opere immortali e seminali come Le Metamorfosi di Ovidio e il Satyricon di Petronio: è incredibile. Gli altri cinque nomi formano una rosa sorprendente per un lettore contemporaneo. Stassi li elenca in ordine alfabetico: Pietro Aretino, Giuseppe Antonio Borgese, Emilio Salgari, Ignazio Silone e Maria Volpi, unica donna di questa lista.
L’Aretino, nato nell’anno della scoperta dell’America, è uno degli scrittori più irregolari e scandalosi della letteratura italiana, circonfuso da un’aura ambigua di impenitente donnaiolo, figlio di una cortigiana e di un ciabattino, «flagello dei principi» giusta la definizione di Ludovico Ariosto, autore di poesie (come i Sonetti lussuriosi) già al suo tempo più volte sequestrate e condannate al rogo per il contenuto osceno. È quasi certamente la pornografia o comunque la libertà sessuale, più che lo sberleffo al potere, l’elemento perturbante che potrebbe giustificare la presenza dell’Aretino in questo elenco di letterati italiani banditi dall’ideologia nazista. E non a caso, ricorda Fabio Stassi, nel paragrafo “qui sei nel posto giusto” (traduzione di Hier ist’s richtig, la scritta che campeggiava sotto l’insegna dell’Eldorado, uno dei cabaret più famosi e frequentati di Berlino), la prima delle biblioteche saccheggiate fu quella dell’Institut für Sexualwissenschaft, fondato e diretto da Magnus Hirschfeld, il teorico del terzo sesso, “uno dei primi medici a battersi per i diritti civili di quella che oggi si chiama comunità LGBTQ+ in Europa e a sostenere l’affrancamento femminile”. By the way, di Hirschfeld ci consegna un ritratto originale anche Christopher Isherwood.
Il pacifismo cosmopolita di Borgese
Lo scrittore siciliano Giuseppe Antonio Borgese è quasi certamente in quella lista di titoli e autori verbannte und verbrannte per un libro, Goliath, the March of Fascism, uscito nel 1937 presso la Viking Press (gli italiani poterono leggerlo solo nel 1946) che più degli altri era valso a Borgese la pena del fuoco presso il nazionalsocialismo. Quando viene emanato nel 1931 l’obbligo per i docenti universitari di giurare fedeltà al fascismo, Borgese si trova ancora negli Usa. Questo soggiorno Oltreoceano si prolungherà in una specie di esilio. A Vitaliano Brancati scrive: «Non mi fingerò fascista a cinquant’anni suonati». Le sue ragioni le riferisce per lettera anche a Mussolini; che non risponde. Ma il fascismo dichiarerà Borgese dimissionario d’autorità a partire da 1° novembre 1934. Borgese era anche giornalista e critico letterario: è suo il termine “crepuscolarismo” a indicare la corrente poetica del primo Novecento che fa capo a Guido Gozzano e Sergio Corazzini. E fu il primo a recensire l’esordio narrativo di Alberto Moravia nel 1929 con Gli Indifferenti. Nel 1915 si era arruolato volontario nella Grande Guerra. Di ritorno da Caporetto, Borgese aveva pubblicato, nel 1921, Rubè, uno dei più grandi romanzi del Novecento, che ritrae, attraverso l’omonimo personaggio, tutte le contraddizioni della società italiana che porteranno all’affermarsi del fascismo. Il suo Golia è -scrive Stassi- “il libro di un esule, una larga indagine storica e letteraria sui motivi che hanno condotto alla nascita del fascismo, e al suo apparire, a New York, viene recensito con entusiasmo sulla stampa internazionale. Ottenuta la cittadinanza americana nel 1938, l’anno dopo si sposa in seconde nozze con Elisabeth Mann, di trentasei anni più giovane. Al ritorno in Italia, si stabilirà con lei a Fiesole e insieme avranno due figli”.
Gli altri autori nella lista nera sono Emilio Salgari, lo sfortunato scrittore di Sandokan, Yanez e la Perla di Labuan (e la mia generazione, che è la medesima di Fabio Stassi, è forse l’ultima ad essere cresciuta con i suoi romanzi esotici), antimperialista, molto amato in Sudamerica; Ignazio Silone, l’autore di Fontamara, antifascista radicale, e Maria Volpi, unica donna della lista, disinibita narratrice della voluttà e dell’indipendenza femminile. Lasciamo al lettore il piacere di leggere la storia di questi tre autori e le ragioni per cui si trovarono insieme in quell’elenco di libri banditi dal regime nazista. Per me è sorprendente trovarvi Emilio Salgari. Maria Volpi fu, prima di Liala, la più famosa scrittrice di romanzi rosa dell’epoca. Parliamo degli anni Trenta. Alcuni romanzi della Volpi furono tradotti anche in Germania. E nel 1934 Mussolini ordinò alle prefetture di ritirare tutte le copie di un libro che narrava la storia d’amore tra Silvia e Sambadù, cioè tra una donna bianca ed europea e un uomo africano. Oggi fa ridere pensare che una storia come questa potesse mandare su tutte le furie i Minosse della censura in orbace, ma immaginate allora, quando il fascismo voleva un posto al sole in Abissinia.
“In questo specchio continuo di corrispondenze -conclude Stassi- Pietro Aretino e Maria Volpi sono il capo e il termine della lista. Alla base, il cantore rinascimentale del desiderio maschile; in cima, l’affermazione disinibita da parte di un’autrice di successo del desiderio e del piacere femminili. Nel mezzo di questo comune elogio della libertà, che apre e chiude ogni discorso, posso ora distinguere e accostare il pacifismo cosmopolita di Giuseppe Antonio Borgese, l’antimperialismo internazionalista di Emilio Salgari, l’antifascismo radicale e archetipico di Ignazio Silone, per i nazisti tutte malattie da estirpare dalla coscienza e dalla storia. È questa la «letteratura dannosa e indesiderata» che mi ha formato, e definito, e dato un significato all’esistenza, il mio personale marchio d’infamia, ed è di questo necessario riancoraggio alla realtà che ho sentito più che mai bisogno dopo la pandemia. Forse la definizione di Elsa Morante va riformulata non in termini di opposizione ma di vincolo: alla letteratura sta a cuore tutto quanto accade. E per la prima volta mi intuire con quale inchiostro, da adesso in poi, dovrò cercare di scrivere. E leggere. E ricordare”.
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