Nel film francese Il Mistero Henri Pick (2019) di Remi Bezançon -adattamento dal romanzo di David Foenkinos, autore anche del soggetto- Fabrice Luchini interpreta un critico letterario, Michel Rouche, pignolo e altezzoso (almeno all’inizio) che si trasforma in detective e protagonista di un giallo nel mondo dell’editoria. Rouche viene licenziato quando espone dubbi, nel corso di una diretta televisiva, su un best seller (“Le ultime ore di una storia d’amore”) attribuito a un uomo che, pur avendo fatto tutt’altro mestiere (il fornaio/pizzaiolo), è riuscito -così si crede all’inizio- a scrivere un capolavoro: un romanzo scoperto dalla cacciatrice di talenti, Daphné Despero (Alice Isaaz), in un “magazzino dei libri rifiutati” creato a suo tempo dallo scrittore Jean-Pierre Gourvec (Marc Fraize) a Crozon, paesino della Bretagna. Ma Michel Rouche è convinto che dietro il nome di Henri Pick si celi un altro scrittore. Il suo intuito si rivelerà giusto, anche se all’inizio Rouche si presenta in modo piuttosto ispido, decisamente antipatico e supponente: la moglie del defunto pizzaiolo-scrittore abbandona sdegnata, e diciamo pure incazzata, la trasmissione a causa del modo di fare inquisitivo e vagamente ‘sfotti’ del conduttore-critico. Nel corso della storia Michel Rouche diventerà un po’ più simpatico e umano. E scoprirà, con l’aiuto di Josephine, figlia del fantomatico Henri Pick, che il mistero non è tale, ma un’abile trovata di marketing architettata da Daphné insieme al suo giovane compagno, Fred, scrittore anche lui, reduce dal flop del suo primo romanzo, La vasca da bagno. “Come nella Lettera Rubata di Edgar Allan Poe, la soluzione del giallo era così palese da riuscire invisibile” esclama Michel Rouche.
Il mistero di Henri Pick sviluppa in una chiave narrativa originale e quasi umoristica il tema dei ‘rifiuti’ degli editori che sono poi, il più delle volte, frutto delle valutazioni spesso sbagliate dei loro consulenti, scrittori essi stessi. Come si fa a non accorgersi del genio di Marcel Proust o di James Joyce? Se fosse dipeso da André Gide e dalla NRF (Nouvelle Revue Française) e se Proust non avesse creduto così caparbiamente nella sua opera, oggi non avremmo la Recherche. Se la geniale libraia Sylvia Beach non avesse avuto il coraggio di pubblicare per la Shakespeare & Co il malloppo scottante del suo Ulisse, Joyce si sarebbe forse arreso al giudizio negativo di Virginia Wolf. Persino Harry Potter ha dovuto passare sotto le forche caudine dei rifiuti, ben otto. Fra i numerosi casi di scrittori italiani e stranieri rifiutati più volte dagli editori e raccontati nelle schede di Mario Baudino (Il gran rifiuto, storie di autori e di libri rifiutati dagli editori, Passigli editore, Firenze, 2009), spicca naturalmente Giuseppe Tomasi di Lampedusa: l’autore di un best seller come Il Gattopardo respinto, però, da tutti gli editori, tranne che dal genio Feltrinelli. Fra i poeti, Rocco Scotellaro, rifiutato da Elio Vittorini; e poi il caso forse più infelice di tutti, Guido Morselli, morto suicida senza esser riuscito a pubblicare quasi niente. Ma come è possibile che gente come Italo Svevo, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda e Alberto Moravia si sia dovuta pagare i primi libri e spesso non solo quelli? Persino Mario Soldati ebbe difficoltà a pubblicare America, primo amore, rifiutato da Bompiani nel 1935; e perché? Perché parlava troppo bene degli ebrei. Solo Bemporad se la sentì di rischiare e ne stampò 500 copie subito vendute prima che la censura lo vietasse. Il primo libro del poeta americano E.E. Cummings venne respinto negli anni Trenta da più di una dozzina di editori. Quando lo pubblicò la dedica recitava così: “Nessun ringraziamento a: Farrar&Rinehart, Simon&Schuster, Coward McCann, Limited Editions, Harcourt, Brace, Random House, Equino Press, Smith& Hass, Viking Press, Knopf, Dutton, Harper’s, Scribner’s, Covici, Friede”. Nella lista di scrittori e scrittrici più volte rifiutati ci sono nientemeno che Arthur Conan Doyle e Stephen King!
Tornando al film, il fondatore del Magazzino dei libri rifiutati, lo scrittore Jean-Pierre Gourvec, a sua volta rifiutato da Gallimard, dice una cosa fondamentale: “il rifiuto editoriale non ha nulla a che fare necessariamente con la qualità”. È vero. Libri bellissimi, ben scritti, interessanti vengono rifiutati per ragioni politiche, di convenienza relazionale, di simpatia, di mercato, di mera consorteria: se sei dentro una cricca, pubblichi, altrimenti ciccia. Questo succede regolarmente in poesia, ma anche nella narrativa. Scrive Baudino nella prefazione del suo regesto di casi illustri: “si dice no a un libro perché non piace o perché si ritiene che non venda: a volte per una sola di queste due ragioni, (…) Ma si rifiuta anche per inaccuratezza, per insabbiamento, o per incapacità. E non basta: ci sono libri rispediti al mittente per viltà, e quelli per prudenza; ci sono i rifiuti ideologici, i rifiuti sacrosanti, le ribellioni all’insipienza e all’arroganza degli aspiranti scrittori, i rifiuti per pura antipatia. Ci sono quelli tecnici, quelli per cause di forza maggiore, quelli elegiaci che vorrebbero ma proprio non possono e già rimpiangono. Quelli dovuti. Quelli basati su una poetica, o sulla linea di una casa editrice. Quelli spiritosi, imbarazzati, balbettanti, insinceri; quelli sdegnati, e quelli che semplicemente dicono: non mi piace”.
Fra i casi più illustri descritti da Mario Baudino c’è anche quello del Voyage au bout de la nuit (Viaggio al termine della notte), di Céline, rifiutato da Gallimard e pubblicato invece da Denoël nel 1932. “Legge tutto personalmente il signor Gallimard?” “Diciamo il suo Comitato di lettura” .“Leggono dormendo?”. “Sì, il mio Viaggio me l’han letto così…”. “Gli han dato un bel voto?”. “Be’, non c’è male…ma troppo tardi…l’ha pubblicato un altro…”. “E loro che cosa facevano?” “Ronfavano”.
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