Poetica e visione del cinema di Claudio Caligari

Claudio Caligari è morto troppo presto. Solo tre film all’attivo, tutti meravigliosamente belli, e un lascito poetico che nessuno è riuscito finora ad eguagliare, nemmeno i fratelli D’Innocenzo con quella loro narcisistica coattitudine che ormai sa di maniera e di posa impostata; una posa che sta fagocitando i loro film, traghettandoli dall’amarezza infinita di La terra dell’abbastanza e Favolacce alla inconcludente e pastrocchiata deriva thriller, fra echi polanskiani e argentiani, di America Latina

Un regista e un cinema scomodo quello di Caligari, mai conciliante, sempre pronto a schiaffeggiare lo spettatore, ad urlargli in faccia la verità, a mostrargli il lato in ombra della luna. Non è un caso che i suoi più fervidi estimatori, i suoi difensori più indefessi, siano stati Marco Ferreri (per Amore tossico) e Valerio Mastrandrea (per L’odore della notte e Non essere cattivo): il primo regista caustico e feroce, capace di dipingere il nostro Stivale e le persone che lo popolano con uno sguardo sempre straniato, attraverso caratterizzazioni degne di un dipinto di Bosch. Il secondo attore di razza, spesso etichettato come alfiere della commedia italica, ma in realtà maschera capace di travalicare i generi e regalare performance di grande levatura drammatica. Sono loro che si sono battuti contro l’ostracismo delle case di produzione, contro tutti coloro che hanno visto il cinema di Caligari come fumo negli occhi, come una spina nel fianco, come un qualcosa di alieno e di “altro” rispetto al mainstream, all’incasso facile, al box office imperante.

Prendiamo qui in esame Amore tossico e Non essere cattivo, dittico che si fonda su direttrici poetiche e artistiche delineate, precise, quasi cartesiane. Andiamo quindi a tralasciare L’odore della notte, noir sui generis, cult non colto inizialmente da critica e pubblico ma che, col passare del tempo, ha acquisito lo status di epica rappresentazione della criminalità capitolina, andando a toccare le gesta di quella “banda della Arancia Meccanica” che seminò il panico nella borghesia dell’urbe, con le sue rapine fugaci e improvvise. 

Ma torniamo alle traiettorie poetiche che solcano le due pellicole di Caligari.

C’è un luogo. Ovvero Ostia col suo litorale marcescente e livido.

C’è un tempo che si snoda lungo una decade: ovvero i primi anni Ottanta che si vanno a congiungere ai primi anni Novanta, in una sorta di continuum diacronico.

Ci sono le anime alle deriva che animano e abitano questo luogo e questo tempo.

C’è la droga, che passa dalle “pere” e dagli “schizzi” in vena e, come in un tragico balletto di morte, arriva alla sintetica allucinazione dell’ecstasy.

Questi i temi portanti della visione di Caligari. Temi con cui il regista, come su un tela, buca lo schermo e, attraverso vivide pennellate, edifica un mondo di paura e delirio, di esasperata solitudine e struggente disincanto. 

Amore tossico esce nel 1983, accompagnato dalle mille polemiche successive alla presentazione del Festival del Cinema di Venezia (troppe le concessioni alla sgradevolezza secondo i benpensanti, troppi gli inchini ai ragazzi di vita pasoliniani per la critica) e viene etichettato come un UFO, come una sorta di oggetto che non si sa bene dove posizionare in quelle sale occupate esclusivamente da commedie vanziniane (Vacanze di NataleSapore di mare) e kolossal hollywoodiani.

Da subito è scandalo. Nessuno prima di Caligari (ad eccezione, forse, del Sergio Nuti di Non contate su di noi, uscito nel 1978) aveva rappresentato il mondo della tossicodipendenza da eroina con tale virulenta carica.

La storia di questo gruppo di anime in pena (per la maggior parte veri tossici nella via reale), zombi alla perenne ricerca di una “svolta” per procurarsi la roba, che peregrinano dal litorale romano alla Capitale in un continuo andirivieni sfiancante e avvilente, colpisce duro. Non solo visivamente (quindi non solo con la presa diretta di siringate in vene martoriate o su colli madidi di sudore) ma anche linguisticamente. I personaggi di Caligari parlano un gergo tutto loro, quasi da sottotitolare. Un idioma che mescola romanesco e storpiature lessicali (“Ma come? Dovemo svorta’ e tu te magni er gelato? Ho capito, va. Oggi se famo cor quasi”), calembour linguistici e stranianti fonemi (“frena i freni: c’è una farma”), una “metalingua” comprensibile solo a chi vive quel mondo, a chi ne fa parte, in una sorta di unione indissolubile fra acquirenti e spacciatori, venditori e consumatori (“Aho, ma se voi la robba dillo! Che te serve? Un ventino o un cinquantino?”).

Ma c’è di più. Una sorta di grottesca distorsione, di strambo umorismo e crudele, ironica visione della vita che lascia sgomento il pubblico. Si ride in Amore tossico, malgrado il degrado, malgrado la crudele realtà delle cose mostrate, malgrado la sordida bruttura di certe maschere lombrosiane (si veda il pusher che ricatta la giovane eroinomane che, senza un lira in tasca, lo scongiura di dargli comunque l’eroina: “Se voi l’argento me devi dà la fica, se voi l’oro me devi dà er culo”). Si ride per non piangere, a denti stretti, come se stessimo vedendo la nostra immagine distorta nella sala degli specchi della casa stregata di un luna park. Ecco allora il transessuale anoressico che insegue la suora nei corridoi obitoriali della metro della Stazione Termini (“Sorella, je posso domanda’ ‘na cosa? Ma perché me piace così tanto er cazzo?”). Ecco il gay strafatto che, in una sorta di comatoso dormiveglia, aspetta la dose di metadone al SERT. Ecco la stramba parata di figure e figurine spettrali che si rincorrono, si sfiorano, si intralciano in un accavallarsi di frasi sconnesse e sbrindellate, raccontandoci quanto l’unica cosa che conti veramente nella loro sfiancante giornata sia sprofondare nella letargia senza dolore e senza orrori della vita reale, cullati dal gommoso abbraccio dell’eroina.

Sullo sfondo, ma parte integrante del film, assoluta protagonista, c’è un’Ostia di iperreale bruttezza. Una lunga striscia di asfalto, lambita dalle acque nere ed inquinate del Tirreno, arsa dal sole e cementificata, soffocata dall’asfalto e dalla speculazione edilizia.

Venti anni dopo, nello splendido Suburra di Sollima, forse l’unico grande esempio di noir che il nostro cinema possa vantare, quello stesso litorale verrà vagheggiato e immaginato come sfavillante waterfront dal matrimonio criminale che unisce politica corrotta, finanza selvaggia e spietate organizzazioni criminali in stile Casamonica, tutti alla ricerca di un nuovo Eldorado in cui capitalizzare i proventi illeciti del malaffare.

Dagli anni Ottanta, Caligari con Non essere cattivo passa ai Novanta, dimostrando come le sue tematiche siano ancora attualissime e dirompenti. Il film esce nel 2015, ma sembra realmente girato all’apice di un decennio che travolge l’edonismo degli Ottanta e dimostra quanto il luccichio della decade precedente sia solo stato un fuoco fatuo, uno specchietto per allodole maligno e obliquo. 

Di scena, stavolta, due antieroi di borgata, cui prestano superlativa mimesi interpretativa Alessandro Borghi e Luca Marinelli. Vittime della nuova droga del decennio, ovvero l’ecstasy, la pasticca dello sballo discotecaro e del car crash autostradale, a cui si accompagna anche uno smodato uso di cocaina. 

Qui la visione di Caligari diviene meno reale e più onirica, si fa allucinazione vera e propria. Scena clou quella in cui Borghi, completamente fuso, al ritorno in macchina da una notte brava, è convinto di trovarsi davanti un circo dalle sembianze felliniane fermo in mezzo alla strada. Il nostro arresta la vettura, non riesce a proseguire, resta completamente in balia della visione, e a nulla valgono le rassicurazioni di un Marinelli leggermente più a segno. L’allucinazione è reale e la realtà si è sfaldata. Le sinapsi sono andate, la sintonia con il mondo circostante viene messa da parte: al suo posto la mente registra un’altra percezione di cose, luoghi e ambienti.

Non essere cattivo non è un Amore tossico 2.0, come qualcuno ha scritto. Dal film del 1983, sebbene i temi portanti siano gli stessi, devia sensibilmente, andando a posizionarsi in una nuovo e peggiorativo “stato delle cose”. Il grottesco deforme che induceva al ghigno sghembo ha lasciato il posto ad una miseria umana ed esistenziale senza sbocchi e prospettive. Tutto è diventato “cattivo”, non c’è più distinzione fra chi vende e chi compra, tra chi fa e chi si fa. La vita di tutti i personaggi è ormai ridotta a simulacro. Tutto è una feroce lotta all’insegna della sopravvivenza: trovare uno straccio di lavoro, provare a condurre una vita onesta, far quadrare il magro guadagno, provare ad andare avanti malgrado tutto.

Ostia è diventata un luogo spettrale, una wasteland imbarbarita dove si aggirano non solo tossici, ma strozzini, palazzinari, cravattari, sgherri e volti postribolari. E anche chi non è cattivo, è pronto a diventarlo, schiavo di un sistema dove sfruttati e sfruttatori, carcerati e carcerieri sono pronti a cambiare maschera repentinamente.

Non essere cattivo è un Amore tossico che ha reso solide le macerie umane ed esistenziali che già si stagliavano all’orizzonte nel decennio precedente. È la pietra tombale della speranza. La parola fine ad ogni sogno di rinascita. È il grido, gelido e glaciale, di un regista che ha capito il mondo in cui stiamo vivendo e ha provato a lanciare un lancinante ed allarmato SOS. Adesso non ci resta che ascoltarlo. Sempre se saremo in grado di farlo. 

2 risposte a “Cattiveria tossica”

  1. Un articolo commovente quanto magistrale.

    1. Avatar Alessandro Garavaglia
      Alessandro Garavaglia

      Grazie Luca!

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