“Passavo intere giornate a riempire quaderni, con la lingua tra i denti, pasticciando con pastelli e colori. Ho sempre invidiato i madonnari, non tanto perché vedevo che sul fazzoletto tenuto fermo da quattro pietre si ammucchiavano un sacco di soldi, ma perché potevano star seduti per terra, sporchi, senza rimproveri di nessuno, anzi, guardati con ammirazione. Anche adesso mi è più facile comunicare con i miei collaboratori disegnando scarabocchietti, esprimere i miei desideri fornendo piccoli identikit al truccatore o al costumista. Preferisco disegnare con foto, stoffa, pezzi di legno, già ambientando i set. Non perdere troppo tempo a scrivere. È un modo di fare che difficilmente viene accettato dai produttori, ma la mia tendenza è sempre più questa: prima inventare e poi vedere come si muove, farlo muovere.”
Una delle celebri affermazioni di Federico Fellini Qui ne abbiamo messe altre mescolate con una nostra intervista che gli facemmo con delle premesse e in una situazione davvero singolare.
Nel 1990 i giornali radio erano ancora in Via del Babuino e per me vedere Fellini(con Giulietta Masina sottobraccio) era un’evenienza abbastanza normale dal momento che abitavano a due passi dalla Rai, in via Margutta.
Gli stavo appresso da tempo per avere un’intervista ma lui direttamente o tramite Giulietta cortesemente rifiutava. Erano telefonate brevi, sul numero di casa, sul fisso perché altro non c’era e non sapremo mai come avrebbe reagito Fellini ai cellulari, agli smartphone, a internet, facebook, twitter ecc. Posso immaginarlo ma non ci potrà mai essere un riscontro. Chissà! Forse avrebbe trovato la poesia anche nelle nuove tecnologie ma l’ipotesi imbarbarimento resta in piedi. Morì prima, il 31 ottobre 1993, venticinque anni fa. E soltanto tre anni dopo quell’intervista nell’ottobre del l990, che fu importante per me più di ogni altra, perché tra me e Fellini, sia pure per il tempo che gli era restato da vivere, nacque una vera amicizia: scambi epistolari, cartoline, chiacchierate, giudizi personali e personalizzati sui miei scritti che gli sottoponevo.
La verità è che il mondo di oggi è diventato un tritacarne e mantenere in vita ricordi edificanti e aspetti determinanti della nostra vita successiva e contemporanea, sembra, a volte un’impresa immane. Ma torniamo all’intervista.
Una mattina aspettai Fellini al bar Canova in Piazza del Popolo dove andava a fare colazione tutte le mattine pagando un cappuccino ed una brioche con un assegno!
Lo fermai, mi feci riconoscere, gli raccontai un bugia che lo colpì e fu decisiva:”Maestro se non mi concede l’intervista, il mio direttore mi licenzia. Cominciò a guardarmi preoccupato, a balbettare qualcosa tipo:”Ma dove…..vorrebbe fare questa intervista…..qui c’è sempre casino……” Poi, restando io in silenzio mi chiese: “Ha la macchina?” “Sì” risposi ed era fatta.
Feci salire Fellini sulla mia due cavalli che diede l’impressione di non sconvolgerlo troppo e andammo sul lungotevere. In un punto tranquillo mi fermai. Prima di accendere il registratore fu lui a farmi tante domande, incuriosito anche di me come lo era di tutto. Il suo segreto e la sua genialità: osservare, osservare sempre chiunque! Tra l’altro mi chiese se avevo diciotto anni, che gli sembravo un ragazzino. Ne avevo trentadue!
Alla fine, dopo altre domande tipo perché avessi fatto il giornalista, accesi il registratore e cominciammo:
T: Federico Fellini, la familiarità , la familiarità con i luoghi che si percorrono, con le strade anche con i luoghi dove è abituato a lavorare, come il mitico Studio 5 a Cinecittà, che cosa significa per Lei il rapporto con le cose conosciute, che si conoscono?
F: E’ una domandina impegnativa, ma cerchiamo di prenderla con buon umore, questa intervistina, quest’ennesimo incontro con un amico implacabile e che mi ha costretto alle 10 del mattino a parlare del più e del meno. La familiarità? Che cosa significa la familiarità con una persona, con un luogo, con i nostri sogni, con uno stesso pensiero? Qualcosa di protettivo , qualcosa appunto di conosciuto, qualcosa che forse non ci tradisce, qualche altro ricordo. Potrei dare tante altre risposte in questa direzione.
T: Lei è stata di recente in Giappone per un premio prestigioso. Un paese il Giappone dove tecnologie e pratiche scintoiste , l’incoronazione dell’imperatore convivono ancora. Che cosa ha riportato di quel viaggio?
F: Un premio, molto simpatico, perché oltre che esprimersi in cerimonie di riconoscimento e quindi gratificanti per l’artista, consiste anche in un lauto compenso in denaro. Un premio quindi per l’artista che mi pare rimanga sempre adolescente soprattutto sul piano psicologico ed è quindi portato particolarmente ad apprezzare. Ma a parte questo che è comunque un bel ricordo che riguarda il Giappone, non pretendo davvero di mettermi a chiaccherare più o meno sconsideratamente su quello che ho visto o credo di aver visto in Giappone.
Sono soltanto cinque giorni, in una spirale precisissima, inarrestabile di incontri, appuntamenti, conferenze stampa, cerimonie. Quindi soltanto qualche frammento, qualche percezione, più che altro ho fiutato qualcosa come appunto diceva Pasolini in suo reportage sull’India. Ha scritto un libretto che mi pare si chiamasse L’odore dell’India.
A parte il fatto che non sono proprio portato a fidarmi molto della mia capacità di testimone e vale anche per questo viaggio. In generale, so benissimo che quello che vedrò ,che quello che mi capiterà, per me non avrà un senso definitivo e nemmeno confortante sul piano dell’acquisizione , della conoscenza o dell’esperienza.
Quando viaggio capisco molto poco, tutto si riduce ad una specie di caleidoscopio instabile, confuso, magmatico, di immagini, di suoni, di volti di persone che non conosco, di frasi che per la maggior parte delle volte non capisco, di situazioni che mi appaiono reali per il solo fatto che non ho punti di riferimento e mi sento sradicato, spaesato. Ritorno da ogni viaggio senza aver riportato niente che possa aver a che fare con la conoscenza di quel posto, di quel paese. E questo molte volte mi immalinconisce.
Quindi, al di là di questo stato d’animo, che è quello di sempre insomma, che ha a che fare con una vulnerabilità, particolare probabilmente, nevrotica, che mi impedisce di tentare operazioni di deduzione, di informare me stesso di quanto mi sia successo, l’ impressione più precisa che ho riportato da questo viaggio in Giappone è comunque quella di un paese irraggiungibile , non quanto per la sua distanza, quanto per quello che offre di sé stesso, per la rappresentazione consapevole, non nel senso dell’esibizione, ma nel senso dell’esperienza esistenziale,
Il Giappone è un paese che si lascia guardare, ti si rappresenta davanti agli occhi invitandoti ad una forma di contemplazione di qualche cosa a te completamente sconosciuto e nello stesso tempo molto familiare.. potrei riassumere quest’impressione dicendo che tra i pochi paesi che ho visitato e quello che mi ha fatto sentire meno straniero. Non che mi sembrasse di trovarmi in Italia a Roma o a casa mia ma a Cinecittà, il “paese” dove mi sembra non solo di esser nato ma di aver sempre vissuto. Questo suo, ripeto, rappresentarsi.
Tutto avviene con una tale leggerezza , con una tale grazia e armonia, i tempi sono cosi bene programmati che tu ti trovi non invischiato in qualche cosa per la quale devi per forza affrettarti o con la quale devi in qualche modo avere a che fare.
Sei completamente libero, libero e isolato. E le cose attorno a te si svolgono come sullo schermo, come su un palcoscenico. l’unico punto così di analogia con il nostro paese è quello di ricordarti certe processioni, cerimonie ecclesiastiche che hanno a che fare con i riti della religione cattolica.
Le atmosfere che mi sono apparse di più alla memoria sono proprio quelle conventuali, di certi monasteri, le feste tranquille, ordinate, silenziose che vedevo da ragazzino, una certa ieraticità nell’esprimersi, nell’atteggiarsi, nel comportamento. Questo per un uomo di spettacolo, come sono, dà la sensazione di qualcosa di conosciuto.
T: Il Giappone mi fa pensare alle suggestioni del suo teatro, come No e Kabuki. A proposito del teatro, qual è il rapporto tra il teatro e Fellini , inteso come luogo di scambio, di incontro. Che cos’è per Lei il teatro, per un grande regista?
F: Il teatro è la possibilità di vivere in un mondo immaginato, in un mondo sognato, in un altro mondo insomma; come lo è il cinema e quindi è un’esperienza esistenziale molto particolare, molto profonda. E’ proprio L’ALTRA COSA. Uno spazio scenico oppure rappresentato su un grande schermo che ha a che fare con quello che uno può immaginare con gli occhi chiusi o sognare, quando dorme. Quindi un’esperienza esistenziale che fa parte della vita, pur distanziandosene in tutti i modi, tentando di rappresentarla; in un mondo dove tu sei attore e nello stesso tempo osservatore.
“Sono autobiografico anche quando parlo di una sogliola”.
“Felliniano… Avevo sempre sognato, da grande, di fare
l’aggettivo”.
“Nulla si sa, tutto si immagina.”
T: Federico Fellini e la letteratura. Quale letteratura l’affascina di più, quale scrittore Le piace di più?
F: Tutti. Tutti gli scrittori che riescono a suggestionarmi esprimendosi. Non ho dentro la testa un particolare genere di letteratura. Qualunque scrittore riesca a farmi credere a quello che racconta, mettendo in fila delle parole, mi fa entrare in una sua visione del mondo rendendomela più autentica, più verosimile rispetto a quello in cui vivo, ha il mio rispetto, la mia gratitudine.
T: Il suo amore per la pittura, il disegno, non lo ha mai abbandonato quando ha cominciato a fare del cinema. L’ha sempre accompagnato.
F: Non so se non sono mai stato abbandonato dalla pittura e dal disegno ma non mi considero affatto un pittore o mi considero pittore nei limiti in cui mi esprimo attraverso delle immagini.
Quindi penso che il cinema abbia a che fare in maniera molto profonda con la pittura, ancor prima che con la letteratura o con le altre arti. Un’immagine fotografica realizzata con la luce, la profondità, con le penombre, con i chiaroscuri, con i controluce.
Sono tutte componenti che hanno a che fare con la pittura. Ma non sono un pittore anche se mi sarebbe piaciuto diventarlo, probabilmente da ragazzino quando mi dilettavo a pasticciare con i gessetti colorati e invidiavo moltissimo coloro che lo potevano fare seduti per terra, sui marciapiedi, dipingendo santi e Madonne e stando lì accoccolati per ore a sfregare con polpastrello dell’indice, riproponendo incarnandoli, aureole, le solite “glorie” nelle visioni dei santi. Pensavo che anche io avrei potuto godere un giorno della soddisfazione di star lì a dipingere qualche cosa, il sorriso della Madonna o gli occhi celesti di un cherubino, vedendo attorno pantaloni e scarpe fermi e poi sentire il tintinnio delle monete.
Ho continuato sempre a scarabocchiare, non madonne o cherubini, ma c’è questa abitudine, non riesco a trattenermi appena ho una matita , un carboncino o un pennarello e un foglio di carta bianco o qualsiasi cosa bianca, una tovaglia , un tovagliolo, non riesco a trattenermi da mettermi immediatamente a schizzare profili, paesaggi.
Mi è rimasto come un tic inarrestabile che nel mio mestiere serve per avere un rapporto più diretto con il truccatore, con lo scenografo, con il costumista.
E’ il modo più spedito e meno equivoco per fare capire che cosa desidero da questi collaboratori.
“Cosa avrei potuto fare se il cinema non fosse esistito? Non lo so davvero. Scrivere, no. Scrivere è una disciplina ascetica, lo scrittore deve essere circondato di solitudine, di silenzio: a ciò non potrei abituarmi. Di sicuro mi sarei dedicato a qualcosa che avesse avuto a che fare con lo spettacolo o avrei tentato di inventare il cinematografo.”
“Il cinema mi piace perché col cinema ti esprimi mentre vivi, racconti il viaggio mentre lo fai. Sono fortunatissimo, anche in questo: sono stato portato per mano a scegliere un mestiere che è l’unico mestiere per me, l’unico che mi permetta di realizzarmi nella forma più gioiosa, più immediata…”
T: Nel suo film L?intervista, Lei ci ha parlato della Cinecittà di ieri e di oggi. In questi anni che sono passati è diventata peggiore Cinecittà?
F: Ma peggiore in che cosa?
T: Rispetto a quella che è stata la sua epoca d’oro.
F: Non mi sembra, a meno che non sia accaduto qualcosa in questa mia settimana di assenza quando ero in Giappone! Come può diventare peggiore un posto fatto di capannoni o di viali………
T: Quello che si faceva una volta.
F: Una volta mi pare che si facessero dei film, adesso se ne fanno un po’ meno…
T: Più brutti.
F: Questo non lo so. Non vado molto al cinema. Comunque la qualità dei film non ha niente a che fare con il degrado dello stabilimento, credo che lo stabilimento sia funzionante come sempre. Sono convinto che è uno dei migliori che c’è in Europa.
T: Una volta Cinecittà rappresentava qualcosa anche all’estero, dove si creavano dei prodotti di un certo livello. Forse non è più tanto così.
F: Ma non capisco bene a che cosa Lei stia girando attorno, che cosa desidera che Le dica?
T: Io voglio solo sapere se la qualità dei film che si producono oggi è migliore o peggiore di prima.
F: Ma non lo so proprio, mi manca il paragone perché, Le ripeto, non sono un gran frequentatore di spettacoli cinematografici. So che se ne fanno di meno, sempre di meno ma questo è un altro discorso. Mi sa che proprio il cinema, cioè produrre film e andare a vederli, questa tacita intesa tra chi faceva il film e chi comprava il biglietto per andare a vederlo, si sia come inceppata.
E’ venuto meno questo rapporto. Si è un pochino per volta intiepidita fino a sparire quasi del tutto l’amicizia verso lo spettacolo cinematografico. Mi pare che la gente, il pubblico sta dimenticando, non ha più l’abitudine di recarsi con la famiglia o con gli amici a vedere il nuovo film.
Questi sono discorsi che abbiamo già fatto centinaia di volte, parlando sempre della morte del cinema e di quello che la televisione ha fatto per ridurlo in queste condizioni.
T: E’ giusto parlare della morte del cinema?
F: Mah ..è giusto parlarne…dal momento che Lei mi fa queste domande, mi pare cortesia risponderLe. Credo che il cinema ha perduto molto del suo fascino, del suo carisma, della sua autorevolezza.
Non siamo più abituati a stare insieme agli altri, ad una massa di sconosciuti. Non siamo più abituati ad accettare quel rito misterioso di trovarsi seduti insieme, in una grande sala illuminata aspettando che a poco a poco la luce si faccia meno intensa fino a quasi sparire, e nel buio un fascio di luce che attraversa per tutta la lunghezza la sala e va a illuminare un grande lenzuolo bianco e come capita a ciascuno di noi quando la sera stiamo a letto, nel buio della nostra camera, si chiudono gli occhi, dopo un po’ arriva il sonno e con lui il sogno.
Ecco, il cinema era questo. Un sognare tutti insieme guardando, trepidando, commuovendoci, divertendoci, tutti assieme, seguendo le avventure di questi grandi testoni che si agitavano davanti a noi e ci affascinavano.
Mi sembra che tutti i motivi che hanno portato alla perdita di questo potere ipnotico sono stati esaminati in tutti i modi e anche acutamente e sappiamo tutti quali sono. La televisione prima di tutto che ha talmente trasformato l’immagine e il rapporto con l’immagine: un rapporto solitario, individuale che ci ha resi frastornati, inseguiti, bombardati, invasi, da milioni di immagini dalla mattina la sera. Non c’è più bisogno neanche di sognare. Se uno soffre di insonnia si alza la mattina, accende la televisione, è il sogno continua dentro quella scatoletta che continua a farti vedere ridotte a proporzioni molto più domestiche , controllabili perché se ti annoi puoi cancellarle o sostituirle con altre.
Quindi il cinematografo mi auguro che possa riprendersi questo bisogno di stare al buio tutti insieme e guardare dei personaggi enormi che stanno parlando di noi attraverso le loro avventure.
Mi auguro che non sia spento del tutto questo bisogno, questa necessità, questa abitudine, questo bel ricordo insomma e che possa ritornare, in belle sale, confortevoli.
T: Federico Fellini vuole bene, ama i suoi film?
F: Ecco, questa è una domanda che non mi è mai stata fatta e quindi non mi ricordo nessuna risposta. Ma..sì. E’ come se Lei mi domandasse Federico Fellini vuole bene alle sue orecchie, alle sue mani, vuole bene ai suoi 35 anni(?) vuole bene al suo paese, vuole bene ai suoi amici, vuole bene a se stesso? Non trovo un’altra risposta più adatta per tentare di esaudire la curiosità che è nella sua domanda.
T: Lei crede nell’amicizia come valore , più di altri? Che cos’è per Lei l’amicizia?
F: Ma sì, credo nell’amicizia. Non sono stato così tradito , usato, rinnegato, per cui possa essere nato un sentimento di diffidenza. In generale sono ben disposto, abbastanza fiducioso , con quel minimo di scetticismo che ogni intellettuale coltiva insieme alla sua forma di intelligenza e che ti può preservare dal pericolo di troppe delusioni. Quindi mi fa piacere che l’amicizia sia qualche cosa che esiste veramente e che si incarni in tante forme umane con le quali avere un rapporto intonato, congeniale, aver fiducia, poter scambiare le proprie esperienze, darne consigli.
“L’unico vero realista è il visionario.”
“Non c’è fine. Non c’è inizio. C’è solo l’infinita passione per la vita.”
T: Le piace il mondo di oggi?
F: Sono delle domande sulle quali bisogna scrivere dei libri e non tentare delle risposte disinvolte qui chiusi dentro la sua macchinetta caro Tesei. Mah, non ne conosco un altro. Quindi mi rimane la curiosità.
Nel mio ultimo film c’è un personaggio che dice una battuta che condivido pienamente: “E’ solo la curiosità che mi fa svegliare la mattina” per giustificare così atteggiamenti appunto fiduciosi nonostante tutto. Poi non mi pongo questo tipo di problema. Non mi domando se mi piace il mondo di oggi. Ma rispetto a quale mondo? Quello quando ero più giovane? O quello che posso immaginare, ipotizzare, fantasticare? Credo che se imparassimo a farci piacere le cose così come sono, per quello che sono, senza pretendere di cambiarle, di idealizzarle, senza volere per forza predisporci ad una visione diversa, credo che saremmo meno nevrotici , meno delusi e quindi meno infelici.
“Il cinema è come una vecchia puttana, come il circo e il varietà, e sa come dare molte forme di piacere”.
“Il cinema ha questo di salutare: anche se la voglia originaria si è dileguata, la realizzazione comporta una tale serie di problemi concreti che vai avanti a fare la cosa senza renderti conto di non ricordarla più. Il film lo giri senza sapere esattamente di che si tratta”.
“Il cinema non ha bisogno della grande idea, degli amori infiammati, degli sdegni: ti impone un solo obbligo quotidiano, quello di fare.”
“Non mi piacerebbe sentir dire che ho tentato di stupire, che voglio fare il moralista, che sono troppo autobiografico, che ho cercato nuove vie. Non mi piacerebbe sentir dire che il film è pessimista, disperato, satirico, grottesco. E nemmeno che è troppo lungo. La dolce vita, per me, è un film che lascia in letizia, con una gran voglia di nuovi propositi. Un film che dà coraggio, nel senso di saper guardare con occhi nuovi la realtà e non lasciarsi ingannare da miti, superstizioni, ignoranza, bassa cultura, sentimento. Vorrei che dicessero: è un film leale.”
Dopo l’intervista, Fellini mi chiese se potevo accompagnarlo in Piazza Ungheria dove abitava una sua amica che stava male. Io gli dissi subito si. Poi arrivato nella zona mi disse che voleva comperarle delle riviste in edicola ed anche un gelato. Entrai con lui in una gelateria che sembrava conoscere bene e insistette affinché prendessi anch’io “un gelatino”. Infine risalimmo in auto. Duecento metri ancora e mi fece fermare davanti ad un portone. Mi stava ringraziando quando io mi feci coraggio e gli dissi che scrivevo per il teatro e che avrei avuto piacere di……”Mi vuole far leggere qualcosa, vero?” Non ebbi bisogno di aggiungere altro. “Mi mandi tutto a via Margutta!” Arrivederci!
Così feci. Dopo una decina di giorni, ricevetti una telefonata e questa volta fu lui, Fellini, a chiamare me, direttamente. Parlammo dei due copioni che gli avevo mandato e della scrittura. Diventammo, allora, amici in un modo discreto, leggero ma intenso, non invadente ma sempre presente. Nessuno dei due, tanto meno lui, aveva il bisogno che questo avvenisse. E dopo tanti anni sono orgoglioso di poterlo raccontare.
MARCO TESEI
I vitelloni 1953: “L’inverno è terribile, non passa mai. E una mattina ti svegli. Eri un ragazzo fino a ieri. E non lo sei più.” Leopoldo Trieste nel ruolo di Leopoldo Vannucci.
La dolce vita 1960: “A me invece Roma piace moltissimo: è una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene.” Marcello Mastroianni nel ruolo di Marcello Rubini
Amarcord 1973: “Voglio una donna…voglio una donna” Ciccio Ingrassia nel ruolo di Teo
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