La partita è tutta qui: la fama è così smisurata, che decidere di rinunciarvi può assumere il significato di possedere il dominio del potere assoluto. Le celebrità che si sono appartate dagli occhi del pubblico (Howard Hughes, J. D. Salinger, Prince… nel nostro piccolo Mina, che però continua a incidere canzoni) rimarranno sempre leggende, soprattutto perché nel tempo in molti cercheranno di scalfire la cortina di vetro sorta intorno al loro isolamento: giornalisti, fotografi, lontani parenti…

Ma con Greta Garbo, il mistero si infittisce. 

Nel 1941, all’età di trentasei anni, l’attrice con i maggiori incassi al botteghino nel mondo, smette di recitare e mai più comparirà in un film, nonostante il fato le farà dono di vivere mezzo secolo ancora.
Come ha notato Robert Gottlieb, nella biografia scritta nel 2021, per una star che, più di ogni altra, ha invaso il subconscio del pubblico, questa fu un’abdicazione, un privilegio che detengono solo le monarchie (in tempi recenti anche il papato).
Ma ad essere meno superficiali bisogna riflettere sul fatto che questa decisione venne presa da una persona particolare, che non era mai stata caratterialmente consona alla celebrità. Da un lato Hollywood la enfatizzava con la sua macchina pubblicitaria, dall’altro lei continuava a ripetere interiormente quella frase – pronunciata in un film – che suonava più o meno così e che si è irrimediabilmente fusa con la sua immagine pubblica e privata: «Voglio essere sola».
Quella che è stata fraintesa per una strategia atta a mantenere desto l’interesse del pubblico era, più semplicemente, un desiderio sincero e impegnato di tenerlo a distanza.
Pochi altri artisti sono saliti così rapidamente nell’empireo dei grandi, facendo coincidere la propria grandezza con la “perdita” del nome di battesimo, diventando solo Garbo (nel dopoguerra ci provarono con Alida Valli, ma “Valli” non fu mai “Garbo”).
Quando apparve nel suo primo film sonoro, Anna Christie (id., 1931)
la pubblicità proclamava imperiosa “Garbo talks!”. Per la sua prima commedia sonora, Ninotchka (id., 1939) l’annuncio fu “Garbo laughs!”.
Il “fenomeno Garbo”, in fondo, è un enigma su cui continuano a tornare critici e biografi. Garbo ha girato solo ventotto film nella sua vita. Per fare dei confronti: Bette Davis ne ha interpretati quasi novanta, Meryl Streep quasi settanta e continua a recitare… Si potrebbe osservare che questa filmografia scarna è attribuibile esclusivamente allo stop inferto dall’attrice alla sua attività.
Ma Garbo aveva acquisito un mito impenetrabile molto prima che ponesse fine alla sua carriera: la colonia di Hollywood già la trattava come una regina.
Ciò che soprattutto Garbo offriva era il suo viso straordinario, primi piani iconici che titillavano l’immaginazione emotiva ed erotica di un pubblico che non era ancora abituato a questo tipo di proposte, al limite del morboso. Primi piani che infiammavano i cuori, e non solo. Di Garbo non c’è traccia di un centimetro di pelle scoperta, di contro di dettagli feticistici, come una scarpa o un lato ravvicinato delle labbra. O come, in un film muto, Garbo che si arrotola una sigaretta tra le labbra, poi la appoggia tra quelle di John Gilbert, mentre i suoi occhi non lasciano mai quelli dell’altro. Erotismo all’ennesima potenza. Come ha notato Paul Schrader, citando un film muto di D.W.Griffith con Mary Pickford: «Un vero primo piano di un attore riguarda l’entrare dentro di lui per una ragione emotiva che non si può ottenere in nessun altro modo. Quando i registi si resero conto che potevano usare un primo piano per ottenere questo tipo di effetto emozionale, le cineprese hanno iniziato ad avvicinarsi. E i personaggi sono diventati più complessi».
Un viso spettacolare come quello di Garbo – gli occhi grandi e le palpebre infossate, la modalità ironica con la quale distendeva le sopracciglia dissolvendo la sua abituale austerità – era a tal punto travolgente da riempire lo schermo: il pubblico si perdeva nel suo volto.
Non per sminuire il suo mestiere di attrice, ma la sua recitazione è stata forse più efficace nel cinema muto o nelle scene prive di dialogo, dove a parlare e a tessere la tela delle emozioni era il suo volto.

Nelle ultime sequenze di La regina Cristina (Queen Christina, 1933),
l’androgina sovrana svedese di Garbo si trova a prua di una nave che la sta portando via dal suo paese; il corpo del suo amante, ucciso in un duello, è disteso sul ponte. Garbo guarda lontano, il suo viso è una specie di maschera ma non per questo meno eloquente. Il regista del film, Rouben Mamoulian, le aveva detto che doveva «come svuotare completamente la sua mente e il suo cuore», svuotare il volto di ogni espressione, in modo che il pubblico potesse sovrapporre le proprie emozioni su di esso. Per Mamoulian lo spettatore doveva maturare la sensazione di essere l’artefice creativo del film che stava vedendo. E Garbo fu portentosa.
Clarence Brown, che ha diretto la Garbo in sette film, ricordava che con lei era possibile girare scene apparentemente anonime, per quanto efficaci, e poi rivederle sullo schermo per cogliere che proponevano un qualcosa che semplicemente non era stato possibile percepire sul set. I suoi occhi agivano al posto dell’espressione del viso, che non cambiava, per mostrare ira o allegria. Del resto, Garbo analizzava “scientificamente” la semiotica della gestualità. In alcuni suoi appunti, quando prendeva lezioni di recitazione, annotò: “La testa piegata in avanti equivale a una lieve concessione o a un atteggiamento condiscendente”; “voltare la testa all’indietro trasmette un sentimento violento come l’amore”.
Grande attrice, semplicemente tecnica? Probabilmente, fin da subito, la macchina produttiva hollywoodiana comprese Garbo per il giusto verso, l’unico: non era tanto un’attrice eccelsa, quanto dotata di forte individualità e magnetismo.
Del resto, Garbo non si è mai veramente adattata al suo nuovo paese o al suo nuovo destino, almeno oltre il set cinematografico. Quello che poteva apparire come un atteggiamento scostante e riservato, accuratamente coltivato, era in parte il prodotto di imbarazzo, disorientamento e tristezza. Quando arrivò negli Stati Uniti, parlava a malapena l’inglese e, nel giro di un anno, apprese che la sua amata sorella, anch’ella aspirante attrice, era morta in solitudine a casa. Scrisse a un’amica in Svezia su quanto fosse infelice: «Questa brutta, brutta America, tutta automobili, è atroce».
Atletica e fisicamente irrequieta, incominciò a dedicarsi a lunghe passeggiate notturne, che si trasformarono nel suo rifugio; con il cappello abbassato sulla testa, che divenne una consuetudine, per non farsi riconoscere.
Non si è mai sposata, non ha avuto figli. Ha intrapreso brevi relazioni sentimentali, perlopiù con uomini (l’attore John Gilbert, verosimilmente il direttore d’orchestra Leopold Stokowski), e probabilmente anche con donne (la principale “sospettata” sembra essere stata la scrittrice Mercedes De Acosta, che ebbe relazioni con Marlene Dietrich e molte altre).
Le sue relazioni più durature sono state con gli amici, in particolare coloro che l’hanno aiutata nella vita materiale, l’hanno consigliata devotamente e si sono dimostrati riservati. Ha frequentato la straordinaria comunità di scrittori, compositori e cineasti tedeschi rifugiati di Los Angeles, grazie all’amicizia stretta e inossidabile con Salka Viertel.
Fuori dal lavoro, evitava il trucco e le piaceva vestirsi con pantaloni, scarpe Oxford da uomo e maglioni stropicciati. Il suo armadio era pieno di camicie e cravatte da uomo. Si definiva spesso un “compagno” e talvolta firmava le sue lettere “Harry” o “Harry Boy”. Non a caso il ruolo cinematografico – già citato – che le è piaciuto di più è stata l’erudita monarca del diciassettesimo secolo Cristina, che si travestiva. Le consentiva di andare in giro in tuniche, pantaloni attillati e stivali alti, e poter baciare sulle labbra una delle sue dame di compagnia, per poi dichiarare che avrebbe voluto «morire da scapolo!».
Il film, piuttosto bizzarro per l’epoca, scatenò ogni tipo di commento. E allora i più ignoravano che Garbo avrebbe voluto interpretare San Francesco d’Assisi, con tanto di barba, e addirittura il Dorian Gray di Oscar Wilde: sarebbe stata una prova di straordinaria ambiguità, per la donna più bella del mondo!
Ma, alla fine, perché Garbo ha smesso di recitare? La sua stella non era in declino. Era passata con successo ai talkies. Aveva ottenuto quattro candidature agli Oscar. Ninotchka (id., 1939) era stato un grande successo: più di quattrocentomila persone si erano accalcate al Radio City Music Hall, ininterrottamente per tre settimane, per vederlo.
Rifiutò importanti proposte, compreso l’hitchcockiano Il caso Paradine (The Paradine Case, 1947). Ricordate? “Valli” al posto di “Garbo” …
E così, gradualmente, si allontanò dall’attività cinematografica. Non le erano mai piaciute le luci della ribalta e le mancava quel fuoco interiore che animava contemporanee come Marlene Dietrich o Joan Crawford. Non è mai stata particolarmente vanitosa riguardo alla sua bellezza, ma abbastanza pratica da valutarne il valore preciso, compresa la consapevolezza che un giorno sarebbe svanita.
Inoltre, le piaceva recitare ma non era mai soddisfatta dei risultati: «Oh, se una volta, se solo una volta potessi assistere a un’anteprima e tornare a casa soddisfatta». Garbo non era Norma Desmond, che guardava continuamente i suoi vecchi film per ammirare la propria immagine.
Piuttosto si prendeva in giro, le poche volte che le capitava di rivedersi
si beffeggiava.
Tennessee Williams scrisse: «La più triste delle creature: un’artista che abbandona la sua arte». Eppure, Garbo non si vedeva come la stiamo descrivendo. Per neutralizzare i rischi insiti nell’invecchiare a Hollywood, si è trasferita a New York, in un appartamento nell’East Side. Ha trascorso lunghi periodi in Europa, in compagnia di amici ricchi e spiritosi. È andata a teatro, ha frequentato i musei. Con un patrimonio di almeno cinquanta milioni di dollari al momento della sua morte (avvenuta nel 1990), non si è reinventata filantropa, ambasciatrice di qualche buona iniziativa, o scrittrice di memorie o diari.
È vissuta nel mistero, pur senza nascondersi, non temendo i fotografi che la braccavano nella città.
Ciò che non si saprà mai è se Garbo ha potuto godere di una ricca vita interiore, per sostenerla in tutti quegli anni di distacco dal cinema.
Perché Garbo è un enigma.

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