Non esistono regole che determinano la prolificità dei grandi maestri del cinema forse perché la creatività risponde a stimoli personalissimi, ancora più determinanti nel caso di personalità eccezionali. Alcuni di loro hanno lasciato in eredità pochi film, magari per caratteristiche ambientali, perfezionismo o semplici contingenze – penso a Kubrick, Tarkovskij, Bresson – altri invece riescono a produrre con maggiore continuità senza che il loro lavoro ne risenta in termini di valore assoluto. Nella nobile lista di questi autori – insieme a Hitchcock e Bergman, solo per fare due nomi – rientra a pieno titolo Akira Kurosawa. 

Il più noto dei registi giapponesi, rivelatosi al mondo con il capolavoro Rashomon ispirato a due racconti di Ryunosuke Akutagawa – vincitore del Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia nel 1951 e di cui Michelangelo Antonioni affermò che “ogni immagine di questo film reca l’impronta del genio” – è stato in grado di alternare grandiosi affreschi in costume (I sette samurai su tutti) ad efficaci pellicole moderne. Pur rifuggendo la suddivisione affibbiata da una certa critica alla sua  filmografia tra queste due forme, lo stesso regista ammise come “in genere dopo un film moderno, soprattutto se impegnativo, sento l’esigenza di cambiare aria e mi cimento con soggetti più avventurosi e disinvolti”[1] e viceversa. Un’alternanza che riesce a far convivere la grande tradizione giapponese con l’influenza della cultura occidentale: Kurosawa ricorda nella sua autobiografia[2] come uno sguardo aperto fosse favorito dal padre, convinto assertore della portata potenzialmente educativa del cinema e del teatro occidentali. Oltre che a grandi autori come Dostoevskij e Shakespeare, Kurosawa lavorerà anche sul poliziesco Due colpi in uno di Ed McBain, da cui trarrà il grande Anatomia di un rapimento (1963). 

Quelli che non l’hanno mai visto farebbero meglio a correre ai ripari (il film è disponibile su Amazon Prime Video nella versione originale e i ben 39 minuti in più rispetto all’edizione italiana non nuocciono alla visione, benché in giapponese sottotitolato)! Il ricco dirigente Kingo Gondo sta tentando il colpo della vita, cercando di finalizzare una segretissima operazione finanziaria che gli consentirebbe di diventare azionista di maggioranza dell’importante fabbrica di scarpe in cui lavora da sempre, quando una telefonata lo avverte dell’avvenuto rapimento dell’unico figlioletto. Gli iniziali timori per la vita del piccolo – il rapitore minaccia di ucciderlo se Gondo si rifiuterà di pagare il riscatto – sembrano spazzati via dalla ricomparsa immediata del bambino, sano e salvo. In realtà la faccenda si ingarbuglia ancora di più perché il manager capisce velocemente che a essere portato via per errore è stato il figlio del suo autista. Che fare? Disinteressarsi condannando a sicura morte un’innocente oppure soddisfare la folle richiesta – 30 milioni di yen! – che tuttavia comporterebbe la totale rovina per Gondo? Per radunare la cifra necessaria alla sua scalata ai vertici della società, il manager ha infatti ipotecato ogni suo bene, compresa la lussuosa abitazione in cui vive, e il mancato rispetto dei termini previsti per l’acquisto delle quote ridurrebbe Gondo sul lastrico…

Noir potente e di gran classe, Anatomia di un rapimento è un classico del genere pur presentando alcuni forti elementi di originalità. Dal punto di vista della struttura, è mantenuto un grande e raro equilibrio tra lo spazio che viene dedicato alla vicenda personale di Gondo e quello riservato alle indagini “corali” della polizia giapponese. Una soluzione stilistica (che si traduce anche nello spazio scenico, attraverso il passaggio dall’intimità delle stanze della villa di Gondo alle strade della città) che sembra suggerire come Kurosawa voglia ricordare come il delitto abbia sì dirette ripercussioni sulla vita della singola vittima, ma sia anche un problema che riguarda la collettività. Sullo sfondo dei due piani, che si alternano con maestria – quello della scelta di fronte alla quale è posto il protagonista e, appunto, le indagini di polizia – si muove il rapitore, emarginato anche dal punto di vista narrativo. 

Un altro elemento eccezionale di questo film è riscontrabile nella centralità del dilemma etico. È vero che i noir sono spesso infarciti da personaggi tormentati, ma non ricordo altri casi in cui questa caratteristica sia così decisiva. A fornire un pezzo di bravura nella sua interpretazione sfumata e allo stesso tempo vigorosa, il grande Toshiro Mifune dà anima e corpo al personaggio di Gondo, facendogli acquisire una grandiosa statura tragica. La recitazione del volto più celebre tra gli attori-feticcio di Kurosawa alterna scatti improvvisi d’ira per reagire alle pressioni a cui è sottoposto e alle meschinità di cui è oggetto (ad esempio da parte degli alti dirigenti della fabbrica che gli vogliono far pagare la sua ambizione ma anche dal fidato collaboratore che cerca di sfruttare la sua disgrazia per affrancarsi dal destino di tirapiedi a cui è relegato) a momenti di apparente apatia, fino all’asciutto confronto finale con il suo carnefice.

In un periodo in cui la critica cinematografica ha fatto un gran parlare di temi etici e di imperativi morali – sollecitata dal successo planetario dell’Oppenheimer di Nolan – è bene ricordare come il destino di Gondo, seppure neanche lui si possa definire un “uomo comune” secondo l’accezione più tradizionale, ci metta di fronte a un dilemma ben più decisivo perché maggiormente calato nella quotidianità e quindi più vicino a noi. Nella sua confessione, il rapitore ammette di odiare Gondo per la sua stessa vicinanza, perché il successo del manager è uno schiaffo in faccia alla sua misera condizione. La sontuosa villa sulla collina è quasi una contemporanea Acropoli dedicata alla religione del successo e del denaro, pertanto intollerabile ossessione per uno studente di medicina tossicodipendente e senza scrupoli costretto a contemplarla quotidianamente dalla sua povera abitazione.

Vero e proprio capolavoro della maturità di Kurosawa – già oltre i cinquant’anni al momento della sua realizzazione – Anatomia di un rapimento è l’affresco di una triste realtà, moralmente ambigua, che non prevede una composizione tra ordine e caos. Fin dalle prime scene è chiaro come Gondo sia con le spalle al muro: o la rovina economica o un insostenibile fardello morale. Ma Kurosawa non si accontenta e conduce lo spettatore a bere l’amaro calice fino all’ultima goccia. Se l’unico modo di sopravvivere della “banalità del male” sembra quello di abbracciare una morale spicciola, rappresentata dai personaggi più umili – l’autista padre del bambino rapito, la moglie di Gondo – il gigante Gondo deve guardare dentro l’abisso. La scena finale del confronto in carcere con il suo aguzzino sembra uscita dalla penna di Dostoevskij: al protagonista che cerca di risollevarsi economicamente dai colpi di un destino ostile, Kurosawa ricorda come la sua vuota e silenziosa sopportazione non sia che l’altra faccia della medaglia di una folle disperazione popolata di urla, senza nessuna possibilità di salvezza.

Definito sbrigativamente il più americano dei film di Kurosawa, Anatomia di un rapimento è ampiamente sottovalutato e andrebbe ricollocato al posto che merita per l’importanza che ebbe sia nella carriera (penultimo film con Mifune – l’ultimo sarà il successivo Barbarossa – e spartiacque tra la prima fertile stagione con ventidue pellicole nei venti anni precedenti a fronte di otto nei successivi trenta) che nella storia personale di Kurosawa: il pessimismo che il regista ci mostra prefigura in qualche modo quello che lo spingerà a tentare il suicidio in seguito agli insuccessi professionali degli inizi degli anni Settanta.


1 Cfr. Koichi Yamada, L’Empereur: entrétiens avec Kurosawa Akira (Intervista ad Akira Kurosawa), in Cahiers du Cinéma, n. 182, settembre 1966, pp. 34-42;

2 Cfr. Akira Kurosawa, Un’autobiografia o quasi, Casa editrice LUNI, Milano 2018;

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