Il “minore” Pete Walker, emulo non riconosciuto di Alfred Hitchcock e Michael Powell
Psycho e Peeping Tom rappresentano il momento chiave in cui il cinema inizia a concettualizzare la follia come un potenziale costante nell’ordine quotidiano delle cose, qualcosa che emerge impercettibilmente dal funzionamento invisibile della vita familiare.
Nel sintetizzare i temi emergenti del conflitto generazionale, della mostruosità familiare, dello spettacolo sadiano, dell’eccesso del campo e della paranoia, l’inglese (si dovrebbe scrivere ancora) Pete Walker era pienamente consapevole che stava sviluppando una nuova direzione che avrebbe portato l’horror britannico oltre il paradigma Hammer. Allineandosi con la vision di Alfred Hitchcock, definì i suoi film “immagini del terrore” per distinguerli dalla forma più consolidata di horror gotico, come spiegò in “Film Review”, aprile 1976: «in realtà quello che sto cercando di fare è superare Hitchcock, di introdurre alcuni ingredienti più incisivi in un’impostazione che è ormai un po’ vintage.
Devi dare al pubblico qualcosa che non vede in TV. Se qualcuno sta per essere brutalmente assassinato, penso che voglia vederlo brutalmente assassinato. . . C’è una nicchia aperta per un regista britannico che voglia generare terrore. Non vedo altri che si stiano effettivamente specializzando nel filone. Penso che sia il mio forte. Mi piace farlo ed è un business se lo fai in modo corretto ed efficace».
È rivelatore confrontare il concetto di “terrore” di Walker con l’idea di “orrore” della Hammer perché differisce per molti aspetti importanti dall’ortodossia gotica caratteristica del regista principe della casa di produzione di Hammer, Terence Fisher.
In primo luogo, mentre Hammer colloca le sue storie in un passato mitico (di solito nel XIX secolo), gli shock di Walker sono decisamente contemporanei nelle loro ambientazioni. Il conseguente senso di immediatezza ha contribuito a conferire ai suoi film un fascino principalmente soggettivo. Il terrore è ciò che proviamo quando noi stessi siamo in pericolo, mentre l’orrore è un’emozione che potremmo provare nell’osservare la difficile situazione in cui si trovano gli altri. L’orrore è terrore per procura. La scuola cinematografica hitchcockiana cerca di indurre il terrore tra gli spettatori utilizzando il suono, il montaggio e la tecnica per produrre un’illusione di partecipazione all’azione sullo schermo. Con la Hammer, le ambientazioni d’epoca, i costumi e lo stile di ripresa sobrio e oggettivo di Terence Fisher hanno l’effetto di allontanare lo spettatore dall’azione. Lo stile classico della Hammer crea “guardoni incuriositi”, mentre Walker lavora su un maggiore senso di coinvolgimento personale.
Negli anni Settanta, Walker si era fatto un nome nel thriller e nell’horror a basso costo. Era uscito con successo dal sexploitation (se non addirittura porno) e si stava guadagnando una reputazione dalla critica come regista che non aveva paura di toccare temi controversi. Sconvolse la critica e il pubblico con il suo attacco al sistema giudiziario britannico in … e sul corpo tracce di violenza (House of Whipcord, 1974). Nello stesso anno, polemizza ironicamente con la giustizia britannica quando sceglie Sheila Keith per il ruolo della nonna cannibale e armata di trivella in Nero criminale – Le belve sono tra noi (Frightmare, 1974). Firma il suo capolavoro con La casa del peccato mortale (House of Mortal Sin/The confessional, 1976), opera al vetriolo sulla religione e la Chiesa cattolica. Walker ha firmato le sue cose migliori con lo sceneggiatore David McGillivray, che oltre ai film citati, è coinvolto anche in La terza mano (Schizo, 1976), thriller puro.
Il titolo ammicca direttamente a Psycho, ma l’ispirazione diretta è l’argentiano Profondo rosso (1975): lo shock infantile in flashback, la medium che entra in contatto con la mente contorta dell’assassino, i guanti neri, l’efferatezza degli omicidi… Certo c’è anche l’immancabile scena della doccia.
Ascrivibile maggiormente a Psycho (ma non solo) è indubbiamente La casa del peccato mortale, un film audace per la Gran Bretagna della metà degli anni Settanta. L’antipatia di Walker per il cattolicesimo – basata sulla sua rigida educazione ricevuta in una scuola cattolica – conferisce una certa gravità alle sue prvocazioni sui pericoli della religione organizzata, del fanatismo, dell’abuso di autorità e del potere che i sacerdoti esercitano sul loro gregge. Walker commentava così il sacerdozio: «È uno stile di vita così incivile … Tutta quell’ipocrisia».
La storia si concentra su padre Xavier Meldrum (Anthony Sharp), un prete locale che perseguita giovani donne vulnerabili nella sua parrocchia e usa il ricatto per sottometterle alla sua volontà. È un astuto uomo di potere che cerca di abusare di coloro che sono affidati alle sue cure per i propri fini egoistici. La rappresentazione di un prete omicida che uccide metodicamente i membri della sua congregazione non è piacevole. Come la maggior parte dei cattivi di Walker, tuttavia, padre Xavier Meldrum è un personaggio tridimensionale, ben scritto, che spesso passa da momenti di tranquilla contemplazione a lampi in cui viene aggredito dalle sue pulsioni malsane.
E questo avviene man mano che padre Meldrum diventa sempre più ossessionato da Jenny (Susan Penhaligon), credendo di poterla salvare dai suoi “modi peccaminosi” e dal suo stile di vita moderno, ricattandola. La performance assicurata dall’attore schakespeariano Sharp (ma la prima scelta era caduta su Peter Cushing) consente di compatirlo e aborrirlo nello stesso tempo. Il ritratto della governante diabolica di Sheila Keith, attrice feticcio di Walker, conferisce l’ulteriore tocco malsano.
Il film, estremamente cupo, si apre con una scena enigmatica in cui un’adolescente disperata e incinta si toglie la vita. In seguito si scoprirà che padre Meldrum l’ha spinta a compiere il tragico gesto, e forse non è neanche la prima vittima del folle sacerdote. Le cose sono rese più complicate dal suo curato, padre Bernard Cutler (Norman Eshley), che comincia a dubitare della sua vocazione, e intraprende una relazione con la sorella di Jenny, Vanessa (Stephanie Beacham).
Spinto alla follia dalla sua sessualità repressa e da un passato pieno di sensi di colpa, padre Meldrum deve anche fare i conti con una madre (ora disabile) che lo ha soffocato nell’infanzia e la crudele e ossessiva governante Miss Brabazon (Sheila Keith) che lo ama senza tentennamenti pur essendo a conoscenza, come la madre del resto, dei suoi delitti.
Spinto dalla “decadenza della morale della società” Meldrum è ormai un assassino seriale, e Sharp delinea un azzeccato ritratto del tormentato prete da conferire al film un’innegabile aria di credibilità, nonostante faccia sermoni sulle virtù insite nel vivere una vita moralmente pura mentre commette brutali omicidi. Gli agghiaccianti delitti sono tra i più ingegnosi: ostie avvelenate, strangolamenti con i rosari, rasoi e bruciatori di incenso. Walker non è un regista raffinato, abituato a girare low budget in velocità. Il suo stile ricorda innegabilmente i film porno, la forza delle sue opere deriva dall’efficacia delle trame. Ma House of Mortal Sin è uno degli sforzi più stimolanti del regista. Un film estremamente oscuro e nichilista, l’atmosfera cupa e le caratterizzazioni bizzarre creano un meccanismo inquietante che potrebbe essere un’esperienza deprimente per alcuni. House of Mortal Sin è un’escursione inesorabilmente tesa in un luogo profondamente oscuro che lascia tracce sullo spettatore molto tempo dopo i titoli di coda, anche perché il finale (sorprendente) non ipotizza riscatto.
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