“Il mondo è di ferro, non si può far più niente, viene addosso come un rullo, niente da fare, il rullo arriva, corre, c’è dentro gente, è un carro armato, un diavolo colle corna e gli occhi fiammeggianti, e ti dilaniano, ti fanno a pezzi con le loro catene e i denti. E nessuno può sfuggirgli”[1]: è racchiuso in queste parole il senso delle vicissitudini di Franz Biberkopf, protagonista di Berlin Alexanderplatz. Ex facchino appena uscito dal carcere di Tegel dove ha scontato la pena per aver pestato a morte la sua compagna, Biberkopf peregrina intorno “all’Alexander” in cerca di una collocazione che gli possa permettere di campare onestamente. Franz scoprirà quanto sia difficile per uno come lui “uscire dal giro”: il percorso verso la pacificazione sarà frenetico e doloroso e Franz dovrà offrirsi in olocausto per giungerne a compimento…
Con questo vero e proprio capolavoro espressionista pubblicato nel 1928, Döblin realizza senza dubbio la sua opera più importante. “Un vero enigma: avevo trascorso tutta la vita nella Berlino orientale, avevo frequentato le scuole comunali berlinesi, ero socialista militante, lavoravo come medico della mutua…e scrivevo sulla Cina, sulla guerra dei Trent’anni e su Wallenstein, e infine addirittura su un’India mitica e mistica”[2]. Se le fatiche dei primi tempi dopo il trasferimento insieme alla madre nella capitale prussiana dall’originaria Stettino e la testimonianza diretta dei moti spartachisti del 1919 convergeranno nel successivo romanzo Senza quartiere, in Berlin Alexanderplatz confluisce la conoscenza diretta della città che l’autore, allora cinquantenne, ha avuto modo di sviluppare. Innanzitutto la scelta linguistica dell’argot parlato nella zona est, una sorta di brulichio parlato che propone – perfino nella traduzione in italiano – la trascrizione letterale del flusso di discorsi ricchi di immagini fantasiose e fiorite, sebbene appartenenti alle classi umili che popolano il mondo di Biberkopf intorno alla piazza.
Coerentemente con la sua scelta linguistica, i protagonisti di Berlin Alexanderplatz sono quindi scelti tra i più infimi strati della popolazione. La professione di medico consentiva infatti a Döblin di entrare in contatto con il mondo criminale e di acquisire dimestichezza con i comportamenti, i caratteri e le logiche dei suoi esponenti. La frenesia dei cantieri e lo sferragliare dei tram e dei treni che dettano il ritmo dello sviluppo della grande città e della sua vita, spostano quotidianamente le coordinate: il linguaggio, continuamente cangiante, sembra legittimare un’assenza tale di punti di riferimenti morali che il lettore – ormai calato completamente nel gioco – sembrerà perfettamente conseguente che Franz intrecci una relazione con la sorella della donna che ha ammazzato o che si prenda le amiche del compare Reinhold per aiutarlo a liberarsi di loro…Una forma di utilitarismo che non deve stupirci perché il libro risponde a un profondo convincimento di natura filosofica dell’autore, quasi una premessa: “il nostro mondo è il mondo di una duplice divinità. È il mondo della costruzione e della disgregazione. La lotta si svolge nella temporalità, e noi ne siamo partecipi”[3].
Berlin Alexanderplatz è un lavoro epico, nonostante convivano le emozioni più piccole o semplicemente mediocri, i sentimenti, le aspirazioni, le sofferenze degli individui insignificanti. Döblin concede ai cosiddetti “piccoli” la stessa grandezza che nell’arte si accorda normalmente ai “grandi” raccontando ogni azione, anche la più banale, come un avvenimento significativo e grandioso, come se facesse parte di una mitologia solo apparentemente segreta, come una trasposizione di momenti religiosi, siano essi cristiani o ebraici (non a caso il romanzo attinge a piene mani a immagini dell’Antico e del Nuovo Testamento, per costruire parallelismi tra le vicende di Biberkopf e quelle di personaggi biblici come Abramo o Giobbe…).
Inoltre pur condividendo il topos del viaggio con altri celebri predecessori – inevitabile l’accostamento con il quasi coevo Ulisse di Joyce, la cui lettura sicuramente contribuì ad alimentare la vena creativa di Döblin – l’ambito della sua azione non supera il chilometro di raggio. Ma cosa vuol suggerirci con questo l’autore? Innanzitutto che l’Alexanderplatz è in posizione dominante – fin dal titolo – e tiranneggia la vita del protagonista. Nella dialettica tra costruzione e disgregazione che abbiamo visto è l’ambiente a trionfare sull’individuo: non a caso Berlino rimane identica a sé mentre lo scrittore “battezza” con un nuovo nome il suo eroe sconfitto, sopravvissuto a sé stesso. Biberkopf è un eroe minimo, forse l’unico possibile in una società nella quale la sconfitta in guerra e le pulsioni rivoluzionarie di stampo democratico hanno minato le gerarchie sociali della Prussia guglielmina.
Berlin Alexanderplatz ha uno svolgimento che si potrebbe definire “cinematografico” perché, come fa acutamente notare Walter Benjamin[4], per la prima volta beneficia del montaggio come principio stilistico. Le pagine del romanzo alternano parabole evangeliche, slogan pubblicitari, modi di dire, canzoni, citazioni, onomatopee e via enumerando con uno stile spiazzante caratterizzato dal forte dinamismo capace di esplorare nuove possibilità espressive. Il lettore è talmente trascinato dal ritmo vorticoso che non ha tempo di accorgersi di quanto poco spazio l’autore si riservi, solitamente all’inizio dei capitoli. Uno stile cinematografico, quindi, che però ha poco in comune con i due grandi film “berlinesi” del periodo: Berlino. Sinfonia di una grande città (1927) e Uomini di domenica (1930) si accontentano di una descrizione della città dove il movimento si traduce in organizzazione, tecnologia e ordine senza esplorare gli anfratti angoscianti che il cambiamento dell’ambiente urbano di quegli anni porta con sé. Döblin svela come questi tratti siano invece caratterizzanti il suo romanzo, mostrandoci fin dalle prime pagine come Biberkopf sia disorientato di fronte alla realtà in mutamento, quando sul tram su cui è salito per tornare in città all’uscita dalla prigione gli sembra di veder muoversi i tetti delle case. Echi spengleriani? Ricordo come nel 1922 fosse uscito il secondo volume de Il tramonto dell’Occidente, rivelandosi uno dei bestseller della Germania degli anni Venti del secolo scorso, in cui l’autore identifica nella moderna città, teatro di esistenze senza scopo, la metafora per eccellenza della decadenza, capace di ossessionare l’uomo al punto da renderlo vittima della sua stessa creatura.
Il brulichio di masse inquiete, impegnate a soddisfare i loro bisogni elementari (e a volte illeciti), non offre un riparo alla desolazione di questo scenario ipertecnologico, anzi! L’ambiente umano di Berlin Alexanderplatz è un ulteriore elemento destabilizzante per Franz Biberkopf, popolato com’è da ubriaconi, delinquenti di mezza tacca o farabutti fatti e finiti, con l’immancabile corollario di sfruttatori e prostitute, personaggi di bassa lega che evocano inevitabilmente le figure di Grosz o Dix. Nonostante la sua dimestichezza con questo orizzonte, come detto Biberkopf finirà con il soccombere.
Un’opera innovativa e originale ma anche aspra e cinica. Il pubblico tedesco tuttavia dimostrò di apprezzare il libro, che divenne un vero bestseller al punto da venir perfino riadattato cinematograficamente già nel 1931 (lo stesso Döblin curò la sceneggiatura del film). Il successivo avvento al potere del partito nazionalsocialista ne decretò il bando: la descrizione della varia umanità che popolava la capitale del Terzo Reich e i contorni troppo sfumati tra delinquenti e non risultava inaccettabile per le camicie brune. A Döblin, ebreo e per giunta socialista, non restò che emigrare in Francia e da lì, per sfuggire all’occupazione del 1940, negli Stati Uniti via Spagna e Portogallo. Nel suo Paese intanto venivano bruciate le sue opere, a pochi passi da quella Alexanderplatz di cui è stato il massimo cantore.
1 Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz, BUR, sesta edizione, Milano, 2015 – pag. 233;
2 A. Döblin, Nota a una ristampa – 1955, op. cit. – pag. 506
3 A. Döblin, Il mio libro – 1932, op. cit. – pag. 504;
4 Cfr. il saggio riportato nell’introduzione alla sopracitata edizione, contenuto in Angelus Novus
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