Alain Delon in un film importante con Jean Gabin e Lino Ventura, sotto la regia di Henri Verneuil, tratto da un thriller di Auguste Le Breton adattato da José Giovanni: Il clan dei siciliani (Le clan des siciliens, 1969). Ad Alain pare di essere su un terreno familiare, circondato da due colleghi che conosce bene e apprezza. Ma le riprese non si rivelano una felice riunione tra amici. Le star tendono a isolarsi, a non frequentarsi, anche a causa dell’invadenza della stampa. Delon è il più irrequieto (l’affare Markovic è nel pieno dello scandalo), tende a non presentarsi sul set: il produttore Jacques-Éric Strauss inizialmente dispera di poter concludere il lavoro. Nuovamente, sarà Gabin a mediare affinché si incominci a lavorare seriamente. Anche se i veri problemi di Alain sono di cuore. È indeciso fra Mireille Darc e una ballerina, Maddly Bamy, che si è fugacemente vista ne La piscina e in seguito apparirà ne L’avventura è l’avventura (L’aventure c’est l’aventure, 1972) di Claude Lelouch.

Il clan dei siciliani ha le caratteristiche per diventare un film di culto. Vittorio Malanese (Jean Gabin), capo del clan siciliano, organizza la fuga del mafioso Roger Sartet (Alain Delon) per aiutarlo a compiere un’audace rapina. Lino Ventura interpreta il commissario Le Goff mentre Irina Demick è Jeanne Manalese, la femme fatale che sarà la fonte della disgregazione del clan.

Non è facile mettere insieme tre mostri sacri del cinema nello stesso film. Anche se Lino Ventura dichiarerà che «l’essenziale è la storia e non gli attori», citando una frase che Jean Gabin, il suo mentore, gli aveva detto agli esordi: «Ricorda, al cinema servono tre cose: primo, una bella storia, secondo, una bella storia, e terzo, una bella storia».

La presenza di Gabin come patriarca italiano, la classe di Delon come mafioso vendicativo, la naturalezza di Ventura come poliziotto tenace e una tra le colonne sonore più belle della storia del cinema fanno de Il clan dei siciliani la quintessenza del thriller alla francese.
Il lungometraggio non è un semplice film: è un’alleanza. Alleanza tra un regista di talento capace di creare un’atmosfera favorevole a una forma d’arte spettacolare, tre mostri sacri del cinema che lavorano di concerto e non uno contro l’altro, e un compositore che sa cristallizzare l’essenza stessa della settima arte in una partitura. Molti hanno detto di Henri Verneuil che era “il più americano dei registi francesi”. Una frase che assume davvero tutto il suo significato con Le Clan des Siciliens, un film dal budget consistente per un’intera produzione francese guidata dal desiderio di arrivare al punto, evitando accuratamente i tempi morti. Non è un caso che Verneuil si sia rivolto alla Fox, anche se questo ha significato girare una doppia versione in francese e in inglese per distribuire il film negli States. Tuttavia, il film si afferma in Europa, ma non ingrana negli Stati Uniti, con disappunto di Darryl F. Zanuck, che aveva imposto la sua fidanzata dell’epoca, Irina Demick (ottima, tra l’altro) nel ruolo di Jeanne Malanese. 

L’impostazione è perfetta per sedurre un pubblico assetato di brividi e anche di un certo erotismo (la scena d’amore girata dietro una roccia è particolarmente azzeccata).

Se l’ispirazione rassegnata della storia ricorda i film di Jean-Pierre Melville, Verneuil propone uno stile radicalmente opposto, sostituendo la lentezza con una moltitudine di dettagli e un ritmo frenetico. Anche Verneuil “lavora” sui personaggi, ai quali attribuisce particolare importanza. Lungi dall’essere soddisfatto del talento della sua sfilata di stelle, non si sforza solo di dare loro un vero sfondo in alcune sequenze ben congegnate (la scena in cui Gabin serve gli spaghetti a tutta la famiglia, prima di dare la lezione alla sua bella figlia che lui giudica troppo leggera, è un modello nel suo genere), ma soprattutto riesce a gestire ogni individualità per trarne il meglio. Così, ogni “io” ha una presenza sufficientemente forte per dare rilievo al suo carattere senza prevalere sugli altri, il che consente anche di lasciare spazio a ruoli di supporto. Un formidabile gioco di equilibri compiuto a percussione da uno spigliato Verneuil già abituato a lavorare con i più grandi. Dalla presentazione dei personaggi, dove la graduale apparizione della star è trattata nella più pura tradizione hollywoodiana, ognuno ha diritto, a parità di condizioni, al proprio momento di attenzione. Delon viene scoperto seminascosto dietro la porta del suo furgone cellulare, Gabin appare lentamente in campo uscendo da un ascensore, mentre Ventura viene ripreso da dietro per più di due minuti prima che la cinepresa catturi il suo volto. Il film è poi come investito da una sorta di aura specifica nell’utilizzo del “corpo della star” come ricettacolo di aspettative popolari, amplificata dall’evidenziazione della fotografia di Henri Decäe che non ha eguali nel registrare corpi e volti al centro di un ambiente.

Ma non sono solo questi i punti di forza de Il clan dei siciliani, la cui sceneggiatura, confusamente fluida, si basa sui dialoghi cesellati di José Giovanni e la concisione di scrittura di Verneuil e Pierre Pelegri. Interamente costruito intorno alla scena del dirottamento di un aereo DC-8, che trasporta un grosso carico di gioielli, con un prima e un dopo, il film offre addirittura una scena da antologia quando l’aereo deve atterrare in stato di emergenza su un’autostrada americana in costruzione. Una vera sfida tecnica per l’epoca. Notevole anche il lavoro dello scenografo Jacques Saulnier, che ha ricostruito interni impeccabili conferendo al film quel tocco di autenticità in più che ci permette di accettare facilmente la realtà di tutta questa fauna che ruota intorno ai siciliani. 

L’ambientazione in una sala giochi, e non in un ristorante o in un emporio alimentare, suggerisce un’idea di gangster “moderno” più in linea con i tempi.

Infine, cosa sarebbe Il clan dei siciliani senza la sua musica? Le variazioni sul tema di Ennio Morricone, che qui segna l’inizio della sua collaborazione con il cinema francese, illustrano meravigliosamente la miscela di grandezza, tensione e forza pacata che emana dal film e dagli attori. Il compositore usa i toni fortemente drammatici di un’orchestra d’archi ma li mescola con toni bizzarri, inserendo un fischietto o un’arpa, che accompagnano ricorrentemente il “Padrino”, interpretato da Jean Gabin. Con una melodia dagli accenti romantici, quasi melanconici, Morricone anticipa anche il dramma che verrà, che segnerà la sorte di Sartet e della giovane moglie di uno dei figli Malanese, fugaci amanti con il sigillo della vendetta. Un tocco di femminilità che aggiunge ulteriore fascino a quello che si imporrà come un classico del cinema.

Delon ha una grande affermazione e, curiosità, è l’unico a mantenere la propria voce anche nella versione inglese, nonostante gli americani non sopportino gli accenti francesi di Gabin e Ventura. 

Il film si rivela un enorme successo popolare.

Massimo Moscati

ALAIN DELON, L’ULTIMO DIVO

Bibliotheka Edizioni (2022)

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