Non sappiamo se preferite i dolcetti o gli scherzetti, se amate andate in giro a spaventare la gente vestiti da Pennywise o se la vigilia di ognissanti avete prenotato una bella suite all’Overlook Hotel o una doppia uso singolo al Bates Motel.
Però, come ogni Halloween che si rispetti, non potete esimervi dall’accomodarvi in poltrona ed immergervi nella visione dei più famigerati incubi su celluloide.
Ecco a voi, quindi, una lista di quelli da recuperare assolutamente e di quelli da evitare come la peste. In entrambi i casi, siamo andati in profondità e abbiamo scelto pellicole che solo pochi di voi avranno visionato forse per età anagrafica, forse perché poco conosciuti al grande pubblico.
Detto questo, buona visione e buona paura.
1. Parents (id.) di Bob Balaban, 1989
Nella ridente America degli anni ’50, fra villette a schiera di timburtoniana memoria, apple pie, latte in bottiglie rigorosamente di vetro, mamme angeli del focolare, buon vicinato e postini sorridenti, l’esordiente Bob Balaban mette in scena un incubo corrosivo e sanguinario di gran classe.
Cosa fareste se, come il piccolo protagonista di nemmeno dodici anni, vi rendeste conto che mammina e papino invece di genitori tutti casa, chiesa, famiglia e lavoro sono in realtà anche dei voraci cannibali?
Delirante, divertentissimo, girato divinamente, rutilante e con delle carrellate debitrici della steadycam impazzita del Sam Raimi de La casa, un horror che parte come una commedia alla Capra o alla Minnelli e si trasforma in una paurosa giostra del terrore. Fra echi lynchani, colori pop, e la suburbia stelle e strisce dello Yates di Revolutionary Road, un piccolo gioiello del brivido, malsano e grandguignolesco, capace anche di fare una paura del diavolo.
Balaban non riuscirà più a compiere un simile miracolo registico e, da fulgida promessa, si trasformerà in cadente meteora.
Un film che in pochi hanno visto e di cui poco si parla in rete. Recuperatelo se ci riuscite: poi ci saprete dire.
2. Doctor Sleep (id.) di Mike Flanagan, 2019
Da uno dei registi horror più interessanti del momento (splendido Oculus – Il riflesso del male, e notevoli anche Il gioco di Geralde Il terrore del silenzio), uno dei sequel più riusciti di sempre, tenendo anche conto dell’immortale progenitore, ovvero quello Shining targato Stanley Kubrick che, secondo la tagline dell’epoca, era l’onda di terrore che aveva spazzato l’America.
Era impresa ardua, quasi impossibile, cimentarsi con il ghigno mefistofelico di Jack Nicholson, le urla di Shelley Duvall, le fantasmatiche gemelle in attesa nei corridoi, la sala da ballo infestata da presenze oblique e malvagie. Invece Flanagan ci riesce: lo fa con uno stile personale, con rispetto, consapevole che affrontare di petto il capostipite sarebbe stato un suicidio artistico.
Danny Torrance (interpretato con sofferta immedesimazione da Ewan McGregor) torna sul luogo del delitto, all’interno di quell’Overlook Hotel dove suo padre perse la vita (e la ragione). Un ritorno nell’incubo per salvare una ragazza che come lui (più di lui) ha il dono della luccicanza e che è stata presa di mira da un gruppo di zingari/vampiri di mansoniana memoria che si nutrono proprio di questo potere/condanna.
Un film che gioca con la cinefilia e la memoria, con il tema del rimorso e del rimosso, della solitudine e della paura. Senza tradire la pagina kinghiana, Flanagan compie un viaggio a ritroso, indaga il presente affacciandosi sul passato, scoperchia i vasi di pandora sepolti nelle tenebre e ci regala un film pauroso e commovente allo stesso tempo.
E quando le porte dell’Overlook si spalancano per la seconda volta, dando vita ad una nuova, splendida festa di morte, la pelle si accappona e le lacrime iniziano a scendere.
3. Possession (id.) di Andrzej Zulawski, 1981
Unica incursione nell’horror del grande regista polacco e, manco a dirlo, non un semplice horror, ma una vertiginosa discesa nei territori della follia e nel ventre di una Berlino che ancora porta le cicatrici del secondo conflitto bellico.
Isabelle Adjani (bella da mozzare il fiato) forse ha un amante, forse no. Ma il marito sente prurito di corna e la fa pedinare da un private eye per coglierla sul fatto. Mal gliene incolse, anche perché il terzo incomodo è un essere polimorfo e tentacolare (creato dal mago Carlo Rambaldi).
Film a suo modo epocale, visionario, realmente disturbante. Zulawski ci conduce per mano nella psiche infranta di personaggi sfuggenti e ci invita a osservarne dinamiche, interrelazioni, isterismi e paranoie. Mentre Berlino con le sue strade grigie, le sue piazze dechirichiane deserte e i suoi palazzi che sembrano sentinelle, spia furtivamente la tragedia compiersi.
Non per tutti i gusti (all’epoca accusato dalla critica di bassa macelleria) così come tutti i film del cineasta polacco (anch’esso tacciato di aver svenduto la sua poetica barattandola con un prodotto “di genere”), e attraversato da un senso di disagio e solitudine, tristezza abissale e squarci di violenza parossistica che lasciano il segno. Ma anche pellicola capace di parlare di un periodo, di un popolo e di una nazione, la Germania dei primissimi anni ’80, con una lucidità e una consapevolezza magistrali. Anche perché quando l’horror affronta la Storia, riesce a parlarne più e meglio di qualsiasi film storico.
4. A Venezia… un dicembre rosso shocking (Dont’ Look Now) di Nicolas Roeg, 1973
Forse uno dei più spaventosi film di fantasmi di sempre, di sicuro quello che più si insinua sotto la pelle dello spettatore. Tralasciando la cretineria dei traduttori italiani che decidono di trasformare il titolo originale, basato sul tema dello sguardo e della visione, in un vero e proprio enigma, ci troviamo davanti ad una ghost story suadente e ammaliante, girata negli spettrali vicoli a ridosso della Serenissima, fra nebbie e canali, ombre e sospiri.
La coppia formata da Donald Sutherland e Julie Christ, devastati per la perdita della loro unica figlia, decidono di trascorrere un po’ di tempo nella città dei Dogi. Oltre a fare i conti con la perdita e l’immenso dolore, e a fronteggiare i fantasmi del passato, dovranno vedersela con una presenza che sembra proprio giungere dal mondo dei trapassati.
Uno dei capisaldi degli anni ’70, diretto magistralmente, interpretato da due attori in stato di grazia, ancora in grado, a distanza di cinquanta anni, di far venire i sudori freddi e una pelle d’oca ininterrotta. Tutto il cinema all’ombra del Canal Grande, da Solamente nero arrivando a Lasciami andare, viene dritto da qui. Ma nessuno sembra ricordarsene.
5. Allucinazione perversa (Jacob’s Ladder) di Adrian Lyne, 1990
E chi l’avrebbe mai detto che il regista di Nove settimane e ½ e Proposta indecente sarebbe stato in grado di girare un film così serrato, potente, allucinogeno.
I traumi del Vietnam per Jacob (il protagonista, un grandissimo Tim Robbins) non sono stati superati, il profumo del Napalm persiste, gli incubi sono onnipresenti, così come il senso di colpa (anche quello di un’intera nazione). Cosa è successo nel Nam, in quella apocalisse di palme e riso, di puttane bambine e mitragliatrici, di gioventù mandata al macero e letali cecchini nascosti nella giungla? Quali strani esperimenti sono stati condotti sui soldati? Quale segreto nascondono i vertici militari?
Thriller, war movie, horror psicologico, seduta psicanalitica: c’è di tutto nel film di Lyne, forse uno dei più belli del 1990, di certo il più sottovalutato dalla critica e il più snobbato da pubblico. Eppure è un film che sembra uscire dalla New Hollywood degli anni ’70, da quel calderone pieno di fermento, idee e visioni politiche che hanno reso grande la settima arte statunitense.
Il cinema horror qui diventa adulto e consapevole, rifugge dalle baracconate e dagli spaventi precotti, pone dubbi e incertezze, e regala un finale beffardo e malinconico, straziante e bellissimo.
Un cult da recuperare assolutamente per capire quanto la banalità del male della guerra, di qualsiasi guerra, sedimenti nella psiche di chi vi ha preso parte e lasci cicatrici profonde e incancellabili.
5 film da evitare accuratamente
1. L’esorcista – Il credente (The Exorcist: Believer) di David Gordon Green, 2023
Con la speranza che non siate già andati a vederlo in sala e non abbiate buttato soldi, ecco uno di quei sequel da prendere e buttare dalla rupe Tarpea. David Gordon Green non contento di aver detto (male) la sua rebootizzando l’Halloween carpenteriano, torna alla carica peccando di lesa maestà, andando a toccare uno dei film più belli non solo del genere horror, ma dell’intera storia del cinema.
Chiama a raccolta Ellen Burstyn e Linda Blair (quanto avrà dovuto sborsare per farle tornare?) e impapocchia una storia che partendo da un prologo simil vodoohaitiano, si sposta a Georgetown e duplica la possessione diabolica, forse convinto che “two is meglio che one”. Le due bimbe indemoniate (una bianca e una nera, così si rispetta il politically correct), che ve lo dico a fare, faranno un bel casino durante l’esorcismo, capace di occupare tutto il secondo tempo tra urlacci, effettacci e demoniacci, fino ad un finale che aspirerebbe ad essere cinico ma pecca di vigliaccheria e cialtronaggine.
Ovviamente la paura non esiste, la tensione e la carica ansiogena del capostipite non è pervenuta, la regia pedestre e gli attori cani senza appello. Insomma, una bella ciofeca, totalmente mainstream e da multisala, per un pubblico che ha dimenticato (o non ha mai visto) l’originale e pensa che, tutto sommato, alla fine, vabbè dai però, ci si può accontentare.
2. Sentinel (id.) di Michael Winner, 1977
Dal regista che ha reso immortale Charles Bronson ne Il giustiziere della notte, una baracconata senza arte né parte che strizza l’occhio a tutto il filone demoniaco del periodo (da Rosemary’s Baby a Il presagio) e lo frulla spudoratamente tra eccessi, bric a brac, tarallucci e vino.
Un marasma senza senso che vede un prete cieco far da guardiano ad una delle porte dell’inferno, situata (non si sa come né perché) in un palazzo signorile nel cuore della Grande Mela. Gli inquilini faranno una brutta fine e i satanassi apriranno ben presto le danze. Ma seguire un filo logico della trama è veramente arduo, così come arrivare a fine visione senza aver devastato il salotto e aver bestemmiato in aramaico.
Un cast che sembra richiamare quello dei vecchi disaster-movie in stile Airport (da Ava Gardner a John Carradine, da Martin Balsam a Burgess Meredith, passando per Eli Wallach e Cristopher Walken), effetti speciali da terzo mondo, musiche orripilanti e un finale talmente incomprensibile che ci si chiede sen l’abbiano partorito sotto mescalina.
A suo modo un capolavoro trash da mandare a memoria.
3. In the Market di Lorenzo Lombardi (2011)
Ecco uno dei più lampanti esempi di quanto tutta una nuova generazione di italici registi “de paura” abbia assimilato del “torture porn” solo la superficie, tralasciandone contesto sociale e politico.
Tre ragazzi dal quoziente intellettivo di una trota, se ne vanno in giro a fare un viaggetto. Vogliono farci credere di star attraversando qualche freeway stelle e strisce, ma gironzolano tra le frasche fra il Lazio e l’Abruzzo.
Dopo essere stati rapinati da due deficienti e senza un dollaro in tasca, decidono di nascondersi in un market aperto “dal tramonto all’alba”. Ma gli stolti non sanno che vi lavora un macellaio pazzo che li narcotizza, li fa a pezzi e l’indomani ne vende le carni agli ignari consumatori. Fine della storia.
Lombardi, pensa che per incutere terrore basti spargere un po’ di frattaglie in giro per la scena e chiuderla lì, ma di certo non basta. Nella sua ora e mezzo scarsa di durata, la pellicola caracolla girando a vuoto, passando da road movie a film di rapina e arrivando infine, nell’ultima mezz’ora alla canonica splatterfeast. Ma, anche da questo lato, quando il film prova a ravvivarsi a colpi di rasoi, seghe, arti amputati ed altre amenità assortite l’orrore resta un convitato di pietra e l’inquietudine una pia intenzione.C’è qualcosa da salvare oltre agli effetti gore di Sergio Stivaletti? Assolutamente nulla. Tutto il resto, che include cast and crew al completo, è così deprimente e cialtronesco da lasciare senza parole.
4. Il carillon di John Real (2018)
Dietro John Real si cela l’italianissimo e sicilianissimo Giovanni Marzagalli, anche autore del pauperistico Native (mai uscito nelle italiche sale).
Come era facile prevedere, anche quest’opera seconda fa acqua da tutte le parti e può essere iscritta al “Premio copia e incolla” di tutto quello che di meglio (The Babadook), di senza infamia e senza lode (il Conjuring universe) e di peggio (la saga di The Ring) ci ha regalato il cinema horror dell’ultimo decennio.
Sophie, dopo aver perso entrambi i genitori in un incidente, viene affidata alle cure della zietta. Le due, per superare il lutto, se ne vanno a vivere in una villa fatiscente e mal illuminata dove, sepolto in giardino giace un carillon appartenuto ad una bambina morta in circostanze drammatiche. E l’anima di quest’ultima non ne vuole proprio sapere di starsene tranquilla nel mondo dei trapassati.
Il carillon è un horror che non trova mai il guizzo vincente né riesce mai a regalare la minima sorpresa. Un prodotto di una noia infinita, una carrellata di triti cliché del genere che non spaventerebbero nemmeno un alunno di prima elementare.
Che strazio vedere come roba simile, al posto di pellicole meritevoli, riesca a trovare spazio nelle sale, invece di finire nei cestoni delle pellicole straight to video di qualche supermercato del nostro Stivale.
5. Occhiali neri di Dario Argento (2022)
Ultimo, indifendibile Argento, che prosegue la parabola discendente iniziata con l’esangue Trauma (1993) e proseguita ininterrottamente fino al delirio ultratrash di Dracula 3D.
A Roma un serial killer si diverte un mondo ad uccidere prostitute. Prende di mira anche Ilenia Pastorelli che, divenuta cieca dopo un incidente di macchina avvenuto proprio per scampare all’omicida, dovrà fronteggiarlo. Riuscirà a scamparla, aiutata da Asia Argento e da un piccolo cinesino? Chissà…
Criptocitazioni dai classici argentiani che accontentano solo i fan (Suspiria e Tenebre), dialoghi ridicoli e risibili, sceneggiatura che sarebbe stato meglio chiamare scemeggiatura, interpretazioni da mani nei capelli (con in primis la Pastorelli con dizione prettamente capitolina), finale talmente abborracciato che non ci si crede se non lo si vede, spaventi precotti e omicidi col contagocce.
Insomma uno dei più brutti pastrocchi del Darione nazionale, ormai al lumicino sia in termini visivi che contenutistici. Un pozzo di idiozia infinita, al servizio di una storia scritta sulla carta dei Baci Perugina, tenuta insieme con lo scotch e terrorizzante come un giro sul Brucomela.
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