James Bond (Sean Connery), agente segreto di Sua Maestà Britannica è momentaneamente disoccupato e il suo capo M (Edward Fox) non ne ha molta stima: lo manda anzi in una clinica per rimettersi in forma, per eliminare tossine e dimagrire un po’. Qui Bond viene a conoscenza di una tresca ai danni di un giovane che lavora nell’aeronautica americana, nel reparto missili nucleari. A sovrintendere c’è una splendida ragazza bruna, Fatima (Barbara Carrera) che è agli ordini di una potente quanto misteriosa organizzazione, la SPECTRE, che vuole rubare due missili per ricattare il mondo. Bond nella clinica vede qualcosa di strano ma non ne comprende il significato. Capirà quando il suo capo è costretto ad affidargli la missione di salvare il globo da questi pazzi. Il giovane americano, irretito dalla donna è costretto a tradire i suoi compagni ma poi viene soppresso dalla stessa Fatima, la quale cerca di fare altrettanto con Bond. Non ci riesce mai anche se tenta varie volte. Il suo capo diretto è Largo (Klaus Maria Brandauer) che a sua volta esegue gli ordini di un dirigente superiore che rimane sempre nell’ombra, Blofeld (Max Von Sydow). Largo viene a sapere ben presto di Bond, lo avvicina, lo sfida ad un complicato duello elettronico da cui esce sconfitto. Sembra ancora Largo avere la meglio sull’agente britannico e sulla sua ex amante, Domino (Kim Basinger), sorella del giovane americano ucciso, che è passata dalla parte di 007, ma il nostro eroe supera tutte le prove e alla fine, dopo tante peripezie, avventure galanti e non, inseguimenti mirabolanti, duelli e scazzottate, riesce a scoprire il nascondiglio dei due missili e con l’aiuto di altri agenti della CIA e della stessa Domino uccide il malvagio Largo e fa ritornare la serenità nel mondo. James Bond ha dimostrato di essere sempre valido e quindi deve ancora ritenersi in servizio a tutti gli effetti Ma lui non sembra essere molto d’accordo. (Centro Cattolico Cinematografico)
Sono passati esattamente quarant’anni da quando Sean Connery decise di smentire sé stesso e indossare nuovamente i panni dell’agente segreto 007 nel film dal titolo autoironico Mai dire mai (Never Say Never Again, 1983), di Irvin Kershner. Scrisse all’epoca Paolo Mereghetti (il tempo lo avrebbe contraddetto): “Bond come mito (e come genere) è morto: Octopussy lo dimostra Ma Sean Connery è vivo. E Mai dire mai lo certifica alla grande, il suo 007 è degno di Hawks. Una raggiunta maturità fisica (altro che chili di troppo) accentua il contrasto fra calma del personaggio e situazioni stravaganti. E la coerenza dello stile fa dimenticare la demenza fanta-spio-sexy-avventurosa. Ora Connery può raccogliere l’eredità di Cary Grant. Perché come lui è massimamente elegante quando si mostra in boxer. Cosi come il sorriso seducente nasconde un arrière-pensée di inquietante mistero. Ma di più, una mascolina fermezza. Trionfo di quello che neppure Armani sa dare agli american gigolo: la certezza della classe”.
Kevin McClory, dopo la precedente esperienza con Thunderball (l’unico Bond di Ian Fleming non detenuto da Broccoli), moriva dalla voglia di riesumare 007. E, passati i dieci anni che lo vincolavano a non utilizzare il romanzo, si mise nuovamente in azione (del resto lui, da Fleming, era arrivato molto prima della Eon e, ad ogni buon conto, era stato coautore della storia).
Quando Broccoli si rese conto che il progetto concorrente stava realmente decollando incaricò i suoi legali di intervenire. La diatriba verteva, almeno, sulla definizione di remake. Secondo Broccoli era legittimo realizzare un nuovo Thunderball che fosse totalmente identico al primo (e pensò, un po’ subdolamente, di rimettere in circolazione il film del 1965). McClory, dal canto suo, sosteneva che la sua paternità letteraria gli garantiva più ampio mandato: dato che aveva partecipato alla concezione del romanzo, era padrone di modificarlo a piacimento.
Così venne coinvolto uno scrittore del calibro di Len Deighton che, con la supervisione dello stesso Connery, tramutò il vecchio script James Bond of the Secret Service in Warhead. E venne scelto anche il regista: naturalmente Terence Young. Ma i timori dell’offensiva legale di Broccoli avevano allontanato tutte le possibilità produttive per McClory. E, quando le cose sembravano mettersi per il meglio, erano passati così tanti anni che McClory si disaffezionò al progetto.
Fortunatamente apparve Jack Schwartzmann, avvocato specializzato in questioni cinemato grafiche e marito dell’attrice e produttrice Talia Shire (sorella di Francis Ford Coppola). Schwartzmann acquistò i diritti da McClory, lo relegò al ruolo di produttore esecutivo e diede il via a Never Say Never Again (titolo ironico voluto dallo stesso Connery che, proprio anni prima, aveva giurato di non volerne più sapere di 007).
La produzione superò agevolmente la nuova causa indetta da Broccoli “per violazione del contratto che regolamenta l’utilizzazione in un film del personaggio di James Bond”, ma fece attenzione, con la presenza sul set di un pool di avvocati, a non tirare troppo la corda. D’altro canto i rapporti tra Broccoli e Connery erano tesi da molto tempo, almeno da quando quest’ultimo aveva portato in tribunale il produttore accusandolo di essersi arricchito alle sue spalle con le innumerevoli riedizioni dei film da lui interpretati.
Ha scritto Irene Bignardi, al tempo presente durante la lavorazione di Mai dire mai (repubblica, 24 ottobre 1982): “Broccoli è stato costretto a mettere in cantiere a grande velocità il suo Octopussy e a contrattare da una posizione di necessità il cachet miliardario del suo 007-Roger Moore), ma produttori e regista di Mai dire mai stanno attentissimi a non invadere il campo rigorosamente protetto dai copyright bondeschi. Nei titoli di testa e nei cartelloni non comparirà la celebre pistolina inerpicata sul sette di 007 (o se ci sarà, ma si vedrà, sarà rivolta a destra). Nei cartelloni e nei titoli di testa, un tempo territorio del geniale Saul Bass, James Bond non potrà sparare frontalmente verso lo spettatore, nella celebre posizione a due mani. Né potrà essere usato il caratteristico tema musicale di John Barry. E aggiungiamo noi, nel film non è permesso leggere che Connery è 007 ma solo che è in 007”.
Ma il gioco era comunque fatto. A cinquantaquattro anni suonati (ma sempre tre di meno di Moore) Connery tornava a dire: «My name is Bond. James Bond And I’m back!».
L’attore avrebbe voluto recitare con la sua naturale calvizie, ma la produzione lo convinse, seppur a malincuore, che una simile scelta sarebbe stata solo un oltraggio al character. È dimostrato, comunque, che Connery non ha voluto riproporre il Bond prima maniera in tutta la sua truculenza: anch’egli si è adattato ad una visione più smorzata e auto-ironica (ma che, in ogni modo, è esente dai tanto esecrati toni parodistici di Roger Moore).
Irvin Kershner, regista di taglio intimista capace di riciclarsi per le grandi produzioni, ha riassunto lo scopo di Never Say Never Again: “L’azione è importante, e nel film c’è molta azione, ma ci sono anche delle ‘persone’. Un film dev’essere costruito partendo sempre dal lato umano, dai suoi personaggi”. E Sean Connery, con la solita vena polemica, conclude: “Generalmente in questi film prima si immaginano le sequenze di movimento e, poi si costruiscono le situazioni di raccordo. No: abbiamo voluto raccontare soprattutto una storia, non preoccupandoci degli effetti speciali”.
Riscritto da Lorenzo Semple jr. (I tre giorni del Condor, King Kong), Mai dire mai, essendo il remake di Thunderball, ne ripercorre sostanzialmente la trama. L’unica, rilevante, differenza è fornita da un James Bond imbolsito, sovrappeso, completamente fuori forma. Nel film il tutto ha un sapore auto-ironico e demistificante, ma non si deve dimenticare che già Fleming, nel romanzo, aveva previsto un simile stato di salute per 007
Alieno dall’affrontare polemiche da guerra fredda (che Octopussy invece enfatizza), in Mai dire mai è ancora una volta la super-organizzazione criminale SPECTRE a fare la parte dell’antagonista. E Klaus Maria Brandauer, nel ruolo di Largo (che fu di Adolfo Celi), si diverte a fare l’istrione in quella che è un po’ la caricatura del suo Mephisto.
Tra le inevitabili innovazioni di questo contro-Bond (ma con l’interprete “originale”) il cambiamento totale dello staff. Edward Fox è il successore di M e, essendo più giovane di 007, fa un po’ fatica a farsi rispettare. In più ostenta una notevole avversione per James Bond, del quale non approva certi eccessi; Alen McCowen è l’armiere (se si fosse trattato di un film della serie si sarebbe chiamato Q); Pamela Salem è, finalmente, una Moneypenny giovane e attraente; Felix Leiter, amico e agente della CIA, esprime l’aggiornamento dei tempi, essendo l’attore di colore Bernie Casey.
Molto accortamente il rutilio delle Bond-girls è stato ridotto a due sole presenze, ma significative: la “buona” Kim Basinger e la “cattiva” Barbara Carrera.
L’insieme in un contesto altamente professionale e con tecnici molto valenti, come il fotografo Douglas Slocombe (il preferito di Steven Spielberg), Ricou Browning (che aveva già realizzato le prodigiose sequenze sottomarine di Thunderball), Stephen Grimes (scenografo de I tre giorni del Condor), Charles Knode (costumista di Blade Runner), purtroppo di routine la colonna sonora di Michel Legrand.
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