Passano gli anni ma Ulisse (1954) rimane un indiscutibile punto di riferimento per il cinema avventuroso: un’anomalia del cinema italiano
Spesso, però, si fatica a trovare un titolo che identifichi Mario Camerini in maniera inequivocabile: un’opera faro che renda immediata la sua riconoscibilità autoriale.
A parte un film, d’indiscutibile qualità e successo internazionale, che ha sollecitato la nostra fantasia di ragazzi e che non smetteremmo mai di guardare: Ulisse (1954).
Sull’onda dei grandi kolossal americani come Quo Vadis? (1951) di Mervyn LeRoy, Carlo Ponti e Dino De Laurentiis decidono di dare vita, per la Lux Film, ad una spettacolare operazione produttiva, grazie soprattutto alla rinata attività di Cinecittà che, dopo una profonda crisi nel secondo dopoguerra, si trasformerà nella “Hollywood sul Tevere”.
Secondo l’idea dei due produttori, il film deve essere epico nel senso più ampio del termine. La produzione vuole soprattutto conquistare un vasto mercato grazie all’impiego di star internazionali. Il ruolo di Ulisse è affidato a un Kirk Douglas all’apice della carriera. Insieme a lui, nel doppio ruolo di Penelope e della maga Circe, Silvana Mangano.
Per la regia inizialmente si pensa a Georg Wilhelm Pabst, che però abbandona il film poco prima dell’inizio delle riprese. A questo punto si decide di affidare la regia alla conduzione esperta di Mario Camerini che, come raccontano le cronache cercherà più volte di abbandonare il film a causa dei suoi dissapori con Kirk Douglas e dei problemi di salute che lo costringeranno a lavorare sempre seduto (e con il prezioso aiuto di Mario Bava, allora apprezzato operatore ma anche esperto creativo degli effetti speciali).
L’impostazione produttiva “mista”, in parte italiana e in parte americana, traduce la volontà di conciliare la semplicità e la linearità tipiche della classica proposta hollywoodiana con un certo modello letterario di riferimento. La scelta di raccontare le avventure di Ulisse attraverso una serie di flashback si rivela vincente. Si lavora prioritariamente sulla spettacolarità della performance, garantita dall’elevata professionalità del cast tecnico impiegato: sequenze grandiose realizzate in Technicolor ma mediate da un taglio espressivo debitore del gusto dell’iconografia popolare; una finezza estetica filtrata da un grande lavoro di artigianato figurativo; i nomi dei tecnici impiegati che non sono meno importanti delle star, dallo scenografo Flavio Mogherini al direttore della fotografia Harold Rosson, dal costumista Giulio Coltellacci al compositore Alessandro Cicognini.
Ponti-De Laurentiis centrano il bersaglio con Mogherini per la costruzione delle scene di Ulisse, il primo vero kolossal italiano (dopo gli antichi fasti del cinema muto), e il professionista elabora scenari molto diversi all’interno degli studios cinematografici: come la straripante reggia di Penelope e Antinoo (e Ulisse) ad Itaca. Per rappresentare la ricchezza, utilizza dipinti variopinti e oggetti di marmo decorati d’oro; per contrasto, nella grotta di Polifemo la sobrietà è rappresentata da cartapesta e argilla; toni freddi ed effetti di luce misteriosi quelli delle grotte di Circe, grazie alle possibilità offerte Technicolor.
I mezzi, spesso poveri e l’artigianalità delle realizzazioni, non limitano e anzi favoriscono la ricchezza visiva di tutti gli ambienti. Per esempio, gli edifici dei Feaci hanno le colonne capovolte, un cenno all’architettura cretese; all’aperto Mogherini costruisce la grande nave, temporanea dimora di Ulisse, in dimensione reale, in grado di navigare.
E poi c’è Mario Bava. Nei crediti di Ulisse compare come uno degli operatori, ma Camerini era ben consapevole della sua competenza. Di fatto, Bava era già direttore della fotografia (avendo esordito nel ruolo già dal 1943), ma il regista lo volle comunque a fianco, consapevole che la Paramount (partner produttiva) avrebbe imposto Harold Rosson in virtù della sua riconosciuta padronanza del Technicolor.
Tuttavia, è ormai accertato che Bava si ritaglia un certo spazio proprio nella direzione della fotografia di alcune parti del film. Indubbio il particolare uso della luce nella sequenza di Circe, l’episodio è diverso da tutto il resto del film: il viso e il corpo di Silvana Mangano sono avvolti da una luce verde-acqua, le pareti della grotta (realizzata da Mogherini) sono ricoperte da una crosta muschiosa e umida, che produce un effetto sovrannaturale. Gli effetti fotografici e scenografici sono identici a quelli di Ercole e la regina di Lidia (1959), di Pietro Francisci, dove Bava è direttore della fotografia e responsabile degli effetti speciali e Mogherini scenografo (per identica produzione Lux Film). Inoltre, le vestali di Circe indossano abiti Belle Époque dalle tonalità verdi e dai veli neri che coprono il viso: Bava riproporrà identica soluzione, da regista, in Ercole al centro della terra (1961) nel look delle Esperidi, le custodi del giardino dei pomi d’oro di Era.
Ma molti osservatori ricordano anche la sequenza di Circe, quando invoca una serie di sortilegi per convincere Ulisse a stare con lei: un colore si diffonde partendo dal basso per animare ciò che altrimenti sarebbe inanimato. Una tecnica che sarà un po’ la firma di Mario Bava, dal suo primo lungometraggio, La maschera del demonio (1960), al “cult” fantascientifico Terrore nello spazio (1965), dove macchine del fumo ed effetti di luce risolvono la carenza di budget per la costruzione di tutti gli ambienti.
La sequenza di Circe si conclude con il primo piano della strega che, rivolta alla cinepresa, esorta Ulisse: «Va’ allora, visto che l’hai scelto, il mare ti aspetta».
L’inquadratura di Circe è apparentemente sfocata grazie a un trucco chiamato “bicchiere d’acqua”. Si tratta di un particolare tipo di vetro (già utilizzato dal padre di Mario Bava, Eugenio Bava, nell’era del cinema muto) utile per un effetto capace di evocare stati di allucinazione e di fastidio: spostando leggermente il vetro davanti all’obiettivo si ottiene il risultato di alterare e deformare l’immagine.
Camerini, debilitato, fa quindi la scelta giusta – anche per cercare di rendersi indipendente dal partner americano -, ma l’opera di Bava per Ulisse non è ufficiale, gli effetti speciali del film sono attribuiti a Eugen Schüfftan, già responsabile di quelli di Metropolis (Friz Lang, 1926) che lo fece conoscere, soprattutto per le miniature. Nel complesso, gli effetti speciali realizzati da Schüfftan per Ulisse sono degni di nota, nonostante una certa discontinuità qualitativa: la miniatura della nave di Ulisse durante la forte marea ha una sua efficacia; ma la sequenza di Polifemo presenta molti errori, per esempio quando il ciclope entra nella grotta è evidente la disarmonia rispetto alla sua ombra; e, in generale, le dimensioni del gigante sono sproporzionate rispetto alla grotta sapientemente ricostruita dal Mogherini.
Comunque la si pensi, Camerini è alla direzione di una delle produzioni più importanti della “Hollywood sul Tevere”, e apre la strada ad un fortunato genere negli anni a venire: il peplum. E questo nonostante il carattere tutto sommato frammentario di Ulisse, causato dalla suddivisione in “capitoli” narrativi e anche dall’alternarsi di squadre diverse con risultati discordanti nella messa in scena. Ma l’elemento di maggiore interesse del film è che, per una serie di circostanze, alcuni dei talenti presenti saranno protagonisti del cinema italiano degli anni Sessanta.
Ulisse diventa un laboratorio dove sperimentare la creatività della cinematografia “all’italiana”, capace di far convivere sapienza artigianale e inventiva cinematografica. In grado di superare i limiti economici grazie all’“arte di arrangiarsi”, spesso raggiunta in virtù di un lungo periodo di apprendistato per molti dei coinvolti.
Mario Camerini, un’anomalia nel cinema italiano.
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