Nella mia infanzia sono almeno tre gli spettacoli (telefilm o sceneggiati) che mi hanno fortemente impressionato.
Il primo che ricordo, ma ovviamente l’ho ricostruito dopo, è stato un episodio di Ai confini della realtà/The Twilight Zone, la famosa serie che iniziava con le parole di Rod Serling: «C’è una quinta dimensione oltre quelle che conosciamo. È una dimensione vasta come lo spazio e senza tempo come l’infinito. È l’incerta zona di confine fra luce e ombra, scienza e superstizione, a metà strada fra le paure più profonde dell’uomo e l’apice della conoscenza. È la dimensione dell’immaginazione, e si trova… ai confini della realtà».

L’episodio si intitolava Un discorso per gli angeli/One for the Angels, il secondo della serie, originariamente trasmesso negli Stati Uniti nel 1959 (e in Italia nel 1962). Naturalmente non lo vidi in quell’occasione, di sera, ma qualche anno dopo quando stavo frequentando la prima elementare. In occasione della Fiera Campionaria di Milano, e in concomitanza con una vacanza scolastica, alle 10 del mattino la Rai programmava (per la sola Lombardia) un film al giorno. All’epoca la Tv nazionale pianificava un paio di film a settimana (e di sera, dopo Carosello), si può ben comprendere quindi come tutti i ragazzi aspettassero l’evento con trepidazione. Non ricordo come mai il previsto lungometraggio venisse sostituito da un paio di telefilm, uno dei quali appunto questo Un discorso per gli angeli che narrava di un anziano venditore di giocattoli (e oggetti singolari) un po’ truffaldino. Il vecchietto riceveva la visita di un uomo elegantemente vestito di nero e con tanto di valigetta, che altri non era che la Morte giunta per informarlo che la sua ora sarebbe scaduta alla mezzanotte. L’ometto, credendosi furbo, fingeva una trattativa chiedendo una deroga al fine di poter concepire un discorso così bello che persino gli angeli lo avrebbero ascoltato. Ma questo espediente fa saltare alla Morte il suo appuntamento, che si infuria e provoca un investimento automobilistico ai danni di una bambina con la quale il vecchio si era relazionato poco prima: la piccola, gravemente ferita, lo sostituirà a mezzanotte con il suo appuntamento con la Morte. A questo punto il vecchio deciderà di accettare il suo destino e la bambina potrà quindi salvarsi, ma non dopo aver declamato un discorso così commovente da turbare perfino la Nera Mietitrice.
La Morte era descritta come una persona assolutamente normale, un professionista qualunque. Eppure, mi fece un’impressione enorme. Che ritornò prepotente quell’estate in montagna quando, per cercare di domare la mia vivacità (avevo allagato il bagno giocando con i miei soldatini subacquei) mia madre mi minacciò – alla faccia degli attuali approcci pedagogici – che mi avrebbe fatto portare via dall’Uomo Nero. Beh, pochi minuti dopo questo avvertimento, uscendo in giardino, colsi un individuo vestito tutto di nero che stava entrando in casa nostra. Rientrai, correndo a perdifiato per le scale, e solo dopo alcuni minuti di terrore capii che si trattava della visita del parroco del paese, in clergyman.
Solo in età più matura mi interrogai sul perché quel telefilm mi avesse così impressionato (non fu l’unico, di quella serie). Affrontava pesantemente il tema della morte e della sua ineluttabilità, raffigurandola nei panni di una specie di burocrate severo ma non sgradevole che doveva completare il suo compito per non subire un’implosione a sua volta. C’era poi il dualismo bambini/anziani, e le aspettative di vita che mutano con il passaggio dalla prima alla seconda condizione. Ma era anche un rigoroso esercizio sul dovere e la responsabilità, dove i contendenti in gioco (il vecchio e la Morte) sono costretti ad accettare i loro ruoli, anche se con riluttanza: la Morte si sente costretta a reclamare la vita di un bambino innocente per mantenere l’ordine e adempiere agli impegni e agli obblighi che ha nella sua funzione; mentre il vecchio deve accettare la propria dipartita e assumerne la responsabilità per evitare che le sue conseguenze vengano scaricate su qualcun altro. Ma dentro c’erano anche i temi legati all’etica e all’istinto di sopravvivenza con cui gli esseri umani convivono in rapporto alla morte.
Non ho certo colto tutto questo, da bambino, ma qualcosa d’imperscrutabile e affascinante sì.

Belfagor
Rod Sterling, il creatore di Twilight Zone

Avevo, invece, ormai 13 anni quando mi appassionai a Il segno del comando (1971), mitico sceneggiato gotico fantasy-mystery in cinque puntate. Una sorprendente, per l’epoca, miscela di fantasmi, occultismo, medium e immortalità per un viaggio esoterico nei meandri più oscuri di Roma. E poi, «Din don, din don, amore…»: chi non ricorda “Cento campane”, cantata da Nico dei Gabbiani nei titoli di testa (ma tutti ormai pensano a Lando Fiorini, che se ne appropriò immediatamente), a commento dell’affannato girovagare per i set tra via Margutta, Trinità dei Monti, il Cimitero degli Inglesi, la piazza del Pantheon, Trastevere della splendida Carla Gravina? E come dimenticare la frase attribuita a Byron (nella finzione televisiva): «Voltai le spalle al Signore e camminai sui sentieri del peccato», e ripetuta ossessivamente per tutte e cinque le puntate?
Trasmesso dal 16 maggio al 13 giugno 1971 sul primo canale della Rai, dalle 21.15 alle 22.15, Il segno del comando entusiasmò il pubblico televisivo italiano, con un ascolto medio di 14.800.000 spettatori.
Ricordo che, sempre con mia madre, gli ultimi due episodi di giugno li vidi in campagna, in un luogo dove pioveva sempre (non a caso si chiamava Orino, in provincia di Varese). Sventura volle che il televisore decidesse di guastarsi subito all’inizio dell’ultima puntata, ma permettendo però di seguire l’audio. E così, con qualche difficoltà, fu come tornare alla radio.

Senza Ai confini della realtà non ci sarebbe potuto essere Belfagor; senza Belfagor non sarebbe stato concepito Il segno del comando!
Belfagor, il Fantasma del Louvre fu trasmesso in Francia nel marzo del 1965; in Italia tra giugno e luglio del 1966.
Perché la dinoccolata figura scura e mascherata di Belfagor terrorizzò letteralmente migliaia di bambini. Avevo otto anni, e i notturni labirinti completamente bui del Louvre mi atterrivano, anche perché sapevo che da un momento all’altro sarebbe apparso il Fantasma che – un po’ come gli zombies di Romero – pur muovendosi lentamente colpiva sempre le sue vittime. E poi s’intrufolava nelle abitazioni. Non capivo come potesse riuscirci. Certo è che chiudevo la porta della mia cameretta, non riuscendo a sopportare che la sua sagoma si potesse materializzare seminascosta, da dietro la soglia, da un momento all’altro. Ovviamente, non giravo le spalle al medesimo accesso quando studiavo.

Autore

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Trending