«Accettazione e amarezza. Da qui sorge il bello. Iliade. Ma perché dunque? Perché solamente così si strappa la vita vegetativa fin sotto la luce della contemplazione» (OC VI/2, p. 396; QII, p. 230), passi di Simone Weil, La rivelazione greca, Adelphi, 2014.

Simone Weil appare soltanto in un punto del film Un amor (2023) di Isabel Coixet, attraverso una frettolosa citazione: è uno squarcio, nel momento in cui ‘un amor’ si trasforma in sofferenza. 

Nat (Laia Costa) è un’interprete che si è rifugiata a La Escapa, paesino della campagna spagnola, lontano dalla città. Prima lavorava come traduttrice istantanea presso la commissione che si occupa di riconoscere lo status previsto per legge ai richiedenti asilo. Le immagini documentaristiche dei racconti di una donna africana riecheggiano nell’esilio volontario della protagonista e parlano di un tormento: parlano della forza bruta a cui sono soggetti gli esseri umani, alcune donne. L’idillio amoroso cominciato dopo una soggezione basata sullo scambio – Nat aveva bisogno di riparazioni alla sua casa in affitto che faceva acqua da tutte le parti – metamorfosa in un abisso tra lei e il “tedesco” (Hovik Keuchkerian): Andreas, che tedesco non è, un omone taciturno simile alle montagne che cingono il paesino e su cui si apre il film, simbolicamente, ad indicare lo sguardo ineluttabile di potenze metafisiche su un villaggio appartato e composto di pochi abitanti. Ancora una volta le rocce comprimono lo spirito umano così come le rocce dell’entroterra americano erano l’elemento ultimo della cittadina di Dogville (2003, di Lars von Trier), dove Grace (la “Grazia”, interpretata da Nicole Kidman) si rifugiava inseguita dagli spari. Nat non lavora più per la commissione, lei conoscitrice di un dialetto africano, di una lingua così lontana ed espressiva, incapace di comprendere appieno le storie terribili che i richiedenti asilo raccontavano. Adesso si occupa di tradurre testi e al momento sta lavorando proprio su un’opera di Simone Weil; le piace, confida al tedesco. È il genio della filosofa francese la chiave del film Un amor (2023) di Isabel Coixet, in concorso alla 18° edizione del Rome Film Fest, tratto dal romanzo omonimo della scrittrice madrilena Sara Mesa (sceneggiatura di Isabel Coixet e Laura Ferrero). Della regista spagnola sicuramente ricordiamo La mia vita senza me (My Life Without Me, 2003), La vita segreta delle parole (La vida secreta de las palabras, 2005), Lezioni d’amore (Elegy, 2008) con Penélope Cruz e Map of the Sounds of Tokyo (2009).

“La forza adoperata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae. L’anima umana vi appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza, trascinata, accecata dalla forza di cui crede di disporre, piegata sotto la costrizione della forza che subisce.”, passi di Simone Weil, La rivelazione greca, cit. 

Nat subisce la forza del tedesco, quando lei stessa gli confida di essere fuggita perché non sopportava il peso delle storie che sentiva e che per lavoro era chiamata a riferire. E il tedesco con uno scatto iroso cambia pelle, mostra la sua brutalità, a sua volta soggiogato dalla forza che egli stesso esercita: l’effetto di ridurre gli uomini in “cose” riguarda, infatti, ambo i lati: chi esercita la forza e chi ne è soggiogato. Ma la madre del tedesco – armena maltrattata da tutti nel suo viaggio – ha, per esempio, accettato la sua condizione, ha mostrato dignità nella debolezza, in questo quindi rivelando un’anima pura non contratta dalla forza ad uno stato di “cosa”, ad uno stato di materia. Nat però diviene ossessionata, aspetta il tedesco fuori casa, lo pedina, disperatamente si aggrappa a lui, all’amore non riamato. La sorte è volubile e il suo ingresso nella comunità, in salita fin dall’inizio (il clima è per quasi tutto il film grigio; solo dopo la metà dei suoi 128 min. appare il sole, paradossalmente quando il rapporto con il tedesco s’incrina), circondata da un padrone di casa (Luis Bermejo) rude e violento, da un vetraio mediocre (Hugo Silva) che vuole solo portarla a letto, da vicini che sono tipici esemplari della perfetta famiglia borghese, vira in una spirale di violenza collettiva esercitata su di lei.

L’unica che sembra essere diversa è l’anziana signora affetta da demenza senile a cui tiene compagnia e che pronuncia parole stranamente solenni; e, soprattutto, un cane/cagna ermafrodito – peculiarissimo aspetto! –  che le viene affibbiato contro la sua volontà e che lei chiamerà “Burbero”, che è un po’ un nome per sdrammatizzare sulla forza brutale di cui, attraverso i racconti della donna africana, abbiamo esperienza fin dall’inizio (non abbiamo nomi epici come Mosè in Dogville). E la forza prosegue, perché dopo il tedesco – che uccide la prole della propria gatta (in realtà della ex moglie) e rifiuta categoricamente la sua amante –, Nat viene assalita dal padrone di casa, viene osteggiata da tutta la comunità per la vicenda di Burbero (che ferisce, in un non meglio precisato incauto avvicinamento, una delle figlie dei vicini), viene persino tradita dalla veterinaria che aveva riconosciuto assieme a lei la bontà di Burbero strappandolo via dalle sue mani. Il cane/cagna verrà soppresso. E Nat rimane sola, tra le mura fetide e umide della casa di campagna. Decide di abbandonare il villaggio, contrastata, disprezzata, incompresa nel suo amore; ed è proprio qui che nel film irradia un fascio luminoso come di sorgente nuova. La protagonista, in un dialogo precedente, aveva confidato al tedesco che a lei piaceva ballare e che era solito farlo; adesso non più; per questo la sua danza con le montagne a cilindro sullo sfondo è una potente rappresentazione del messaggio di Simone Weil, di cui Isabel Coixet ci ha reso privilegiati spettatori (grazie anche all’interpretazione di Laia Costa). Nat accetta la sofferenza, diviene consapevole del sentimento della miseria umana e ama; e balla, inscalfibile in questo, alle parole fortemente espressive della canzone che il tedesco aveva cantato insieme a lei forse nel momento di loro maggiore congiunzione e vicinanza su un piano paritetico. Torna in mente una scena precedente, di pochi secondi, in cui la donna africana andava ad abbracciare l’interprete Nat in lacrime, sotto le luci gialle piatte della stanza: anche Nat, ora consapevole, ridesta un’anima pura e intatta. E il suo ballo è così tenero e così amaro, che non può che essere partecipe di una divina saggezza. Infine, il ritorno improvviso di Burbero forse non è che un sogno o, invero, la coscienza di un amore. 

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