Non è molto conosciuta in Italia Ethel Lina White, nonostante il suo romanzo “The Wheel Spins” (1936) abbia ispirato il noto film di Alfred Hitchcock La signora scompare (1938).
Anche questo “Dome Must Watch” (1933) è apparso nei Classici del Giallo soltanto nel 1981, e in virtù della trasposizione cinematografica (da qui la scelta di intitolarlo come il film, nonostante il rischio di confonderlo con il giallo “The Circular Staircase” di Mary Roberts Rinehart).
Certo questa intrigante trama gialla, che anticipava la moda del serial killer, ha permesso al grande artigiano di Hollywood Robert Siodmak di firmare il suo film noir più famoso.
L’abile sceneggiatore (e commediografo) Mel Dinelli decise di modificare l’ambientazione del romanzo, trasportandola dall’Inghilterra contemporanea all’America d’inizio secolo e, con un tocco di maestría, modificò l’handicap della protagonista che divenne muta. Una grande intuizione, perché la giovane protagonista (felicemente interpretata dall’espressiva Dorothy McGuire, scelta in seconda battuta dopo il rifiuto di Ingrid Bergman) non potrà mai utilizzare la voce per chiedere aiuto. Rispetto al film, molto noto, il lettore ha comunque numerose motivazioni alla lettura e un elemento di sorpresa in più perché il romanzo riserva un mistero che non è presente nella trasposizione cinematografica.
La scala a chiocciola (The Spiral Staircase, 1945) è stato il primo film realizzato dalla RKO con un contratto di co-produzione tra la Vanguard Films di David O. Selznick e lo studio. Selznick mise insieme il tutto – Dore Schary come produttore, Robert Siodmark come regista, Dorothy McGuire ed Ethel Barrymore come stars e il copione di Mel Dinelli – e l’RKO fornì il resto del cast e realizzò la pellicola.
Il film è ambientato nel New England nel 1906. Nella brillante sequenza iniziale (senza parole), Helen (McGuire) guarda un film muto (The Kiss) nella hall di un hotel, mentre al piano di sopra un occhio maschile non identificato spia una giovane donna claudicante mentre si veste nella sua camera. In seguito vediamo una ripresa della giovane donna dal punto di vista dell’uomo, distorta dal “fish-eye lens” (lenti della cinepresa estremamente curve che permettono di compiere riprese circolari che coprano un’angolatura molto ampia), che alcuni critici hanno interpretato come il riflesso della donna nell’occhio dell’individuo. In effetti si tratta di un abile espediente espressionista, teso a esprimere la pazzia dell’uomo: il modo in cui vede la ragazza. Qualche istante dopo la uccide, e, poco dopo, veniamo a sapere che è la terza vittima femminile e, come le altre, è portatrice di un handicap. Tornando alla casa signorile dei Warren in cui lavora come cameriera, Helen, che è muta, viene segnata come prossima vittima. È già stata pedinata fino a casa da un’entità oscura e ora, mentre si guarda nello specchio sulle scale, una figura sul pianerottolo di fronte la osserva e di nuovo vediamo un primo piano dell’occhio seguito da una ripresa soggettiva distorta. Ma nel caso di Helen la distorsione include l’annullamento della sua bocca: un’espressione visiva del difetto che ossessiona l’omicida in maniera maniacale. Al culmine del film, quando l’omicida si rivela a Helen, esclama: “Non c’è spazio nel mondo per l’imperfezione”. Evidente l’accento antinazista.
Quando Helen entra in casa (a circa venti minuti dall’inizio del film), l’oscurità scende e comincia la bufera. Il resto dell’azione ha luogo in casa quella stessa notte. Conservando quindi le unità classiche, Siodmark e i suoi collaboratori hanno confezionato un film stranamente sognante nella sua messa in scena narrativa.
Tutti gli elementi del film sono combinati in modo da produrre questo effetto ipnotico: la residenza signorile dei Warren concepita come un incastro di stanze comunicanti, corridoi e scale, e mobili riccamente decorati. Mentre seguiamo il personaggio che vi si muove, sembra un insieme coerente, ma l’analisi rivela una discordanza cruciale in combinazione con la scala a chiocciola tra il piano terra e il primo piano. Questa discrepanza – una coerenza spaziale apparente che maschera una discontinuità – è tipica delle narrazioni oniriche; all’interno dell’inquietante magione si definiscono le interazioni e le tensioni tra gli otto occupanti (e i due visitatori), con un uso efficace delle ripetizioni. Quasi tutti i personaggi sono accoppiati (due dottori; due fratelli; due giovani donne attraenti; due cameriere di mezza età) e gli avvenimenti chiave sono ripetuti: tre soggettive (distorte) sui primi piani delle vitti- me designate, tre visite in cantina; quattro avvertimenti da parte della signora Warren (Ethel Barrymore) che chiede a Helen di andarsene; quattro inaspettati arrivi/entrate che sorprendono/disturbano; nella parte principale della casa, Musuraca usa angolazioni ampie, e una fotografia intensa per cogliere le interazioni dei personaggi in profondità; nelle stanze della servitù, e nella scala a chiocciola che va al di sopra e al di sotto di essi, si serve di una fotografia neutra, che si scurisce in maniera accentuata man mano che l’azione si sposta in cantina.
Il risultato non è solamente un superbo melodramma di suspense in continuo crescendo, ma un ardito studio psicanalitico sul linguaggio dell’inconscio: scale, corridoi, specchi, ritratti, entrate e uscite inaspettate, una cantina buia, occhi sbarrati, ombre insidiose, una bufera imperversante, una donna psichicamente labile costretta a letto e, naturalmente, il mutismo di Helen, che esprime il terrore dell’incubo di chi non può gridare.
La scala a chiocciola non è un film (e quindi un romanzo) noir in senso stretto. I suoi principali elementi generici derivano dai romanzi gotici del XVIII e XIX secolo: l’ambiente (la grande dimora), i temi (l’eredità perversa del patriarca morto, la rivalità fraterna e la gelosia), i personaggi (un’eroina fisicamente vulnerabile, un eroe quasi inutile, un delinquente folle), miscelati a una narrazione sognante che drammatizza l’innocenza perseguitata e la minacciata violenza (i delitti rimandano chiaramente alla violenza carnale).
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