PRIMA DEL CALCIO DI RIGORE
(Die Angst des Tormanns beim Elfmetter)
Nonostante i proclami e gli entusiasmi iniziali del cosiddetto «Nuovo Cinema Tedesco», movimento nato sulla scorta della Nouvelle Vague nel 1965, la crisi del cinema prodotto nella Germania Occidentale non solo non era stata affatto risolta, ma addirittura, sul finire del decennio, erano stati fatti dei passi indietro.
Una legge approvata nel 1968 prevedeva il prelievo di dieci centesimi su ogni biglietto venduto, cifra da reinvestire sia per l’ammodernamento delle sale sia, soprattutto, per fornire ai produttori “virtuosi” – quelli cioè che riuscivano, con i loro film, a incassare cifre pari o superiori ai cinquecentomila marchi – una sorta di bonus, un contributo sulle produzioni future. Un autentico boomerang, visto che l’ottanta per cento delle sale della Repubblica Federale apparteneva allora alle principali major americane, con la conseguenza che il prelievo sui biglietti venduti era andato a ingrossare ulteriormente le tasche del cinema mainstream d’importazione, rendendo ancora più problematica la vita delle produzioni indipendenti tedesche.
Per tentare una decisa inversione di rotta, nel 1971 tredici giovani registi, quasi tutti esordienti, crearono la Produktion 1 im Filmverlag der Autoren, una cooperativa di produzione per contrastare lo strapotere delle major. Tra di loro Wim Wenders, fresco di diploma alla Scuola di Cinema di Monaco, che tramite la cooperativa ottiene i finanziamenti per il suo film d’esordio: Prima del calcio di rigore (Die Angst des Tormanns beim Elfmetter), tratto dall’omonimo romanzo di Peter Handke.
Lo scrittore austriaco non è semplicemente l’autore del romanzo scelto da Wenders per il suo debutto. Tra i due c’è un’affinità elettiva, una sintonia artistica, un’identità di intenti che portano non a una semplice collaborazione, ma a un percorso comune che, a più riprese, coprirà l’intera carriera di entrambi.
Al momento di girare Prima del calcio di rigore, il loro sodalizio era già iniziato, in occasione dell’ultimo corto girato da Wenders alla scuola di cinema: 3 amerikanische lp’s, film di quindici minuti girato nel 1969 che mostra gli stessi Handke e Wenders all’interno di un’auto che, discutendo di musica rock – Van Morrison, i Creedence Clearwater Revival, Harvey Mandel gli artisti mandati dall’autoradio – attraversano città e campagna, palazzi e negozi, sfasciacarrozze e capannoni. Una sorta di traversata del deserto dove la musica pare l’unica forma di comunicazione possibile, e quindi l’unica salvezza. Due topos sia di Wenders sia di Handke – il viaggio on the road in automobile e il richiamo costante alla musica rock – per mostrarci il mondo intero dal minuscolo perimetro di un finestrino.
Wenders negli anni a venire conquisterà il mondo, ma in quel 1971, tra i due, l’artista di successo è Peter Handke: outsider per eccellenza nel panorama letterario tedesco dell’epoca – celebri le sue vivaci polemiche con il gruppo “mainstream” di autori del secondo dopoguerra come Heinrich Böll – oltre che per lo spirito avanguardistico, si distingue per una penna estremamente descrittiva e visuale, un incedere cinematografico che rende del tutto naturale l’incontro dello scrittore con la settima arte, in particolare con Wim Wenders, col quale condivide, come visto già nel corto menzionato, uno sguardo splendidamente minimale sul mondo, denso e dilatato.
Prima del calcio di rigore è il terzo romanzo della corposa bibliografia di Handke, uscito nel 1970 (la prima edizione italiana, edita da Feltrinelli, è del 1971) e salutato subito da un grande successo di pubblico. Al di là del sodalizio tra i due artisti, proprio il successo del romanzo è tra i motivi principali che portano Wenders a sceglierlo come soggetto della sua opera prima. Puntare a un romanzo già di successo spalancava infatti la strada dei finanziamenti e al tempo stesso garantiva una sorta di lasciapassare della censura, solitamente affatto tenera con gli esordienti.
Pur essendo il lavoro di adattamento fatto da Wenders quasi nullo, il regista si prende rispetto al romanzo una sola libertà, ma così importante e decisiva da segnare l’intera struttura del film, che finisce così per essere sostanzialmente diversa da quella del romanzo.
Le due opere raccontano lo smarrimento dell’ex portiere Joseph Bloch, che trovandosi a vagare nella notte viennese senza una meta, conosce Gloria, impiegata in un cinema, e quando lei cerca di sedurlo, lui la uccide soffocandola, senza alcuna ragione. Tolte le impronte digitali dal luogo del delitto, riprende a vagare fino a raggiungere un piccolo paese nel Burgenland, dove un’amica di gioventù gestisce una locanda. Nei giornali si parla del delitto, in particolare di come l’assassino, cioè lo stesso Bloch, abbia lasciato tracce di sé con alcune monete americane cadute da una tasca della sua giacca. Appresa la notizia, inizia a fornire volutamente indizi che potrebbero attirare l’attenzione. Senza che lettori e spettatori possano mai sapere se Bloch verrà arrestato o meno, film e romanzo si chiudono con Bloch che, guardando una partita di calcio in televisione, spiega al suo vicino quanto il portiere e il tiratore devono concentrarsi l’uno sull’altro durante un calcio di rigore.
L’unico elemento di differenza tra romanzo e film, tanto importante da rendere le due opere assolutamente distinte, è l’incipit. Nel romanzo Bloch ha già abbandonato da tempo l’attività calcistica, e si trova a vagabondare dopo essere stato licenziato dal cantiere dove ha trovato lavoro dopo aver appeso le scarpette al chiodo.
Nel film invece, Bloch è ancora un portiere a tutti gli effetti, e il suo smarrimento è conseguenza di un’espulsione subita sul campo da gioco. Wenders ha bisogno di iniziare con Bloch calcisticamente ancora in attività perché proprio la partita di pallone fornisce uno degli elementi narrativi più ricorrenti nella sua filmografia: un incidente iniziale, un contrattempo, una frattura banale capace però di separare il protagonista dalla realtà, di mettere in moto un processo di progressiva alienazione e smarrimento del proprio io, della propria identità, dei propri rapporti con il circostante.
Nel film l’atmosfera poliziesca resta così sullo sfondo, con tutto il suo armamentario di stereotipi di genere abilmente annientati e ribaltati da Wenders, che focalizza l’attenzione sul lungo percorso di alienazione di Bloch, sul suo insensato vagabondaggio fatto di azioni indeterminate e insignificanti all’interno di una città meccanicizzata e inospitale. In Handke invece, pur essendo parimenti in primo piano lo smarrimento interiore del protagonista, l’andatura poliziesca del plot ha un peso decisamente maggiore e ben più determinante. Nel romanzo Bloch è anche un uomo braccato dalla polizia, ingabbiato in una struttura “a inseguimento” da incubo dove la suspense la fa da padrona a ogni pagina.
Le due opere tornano tuttavia a sovrapporsi nella sintassi: paratattica, fredda, quasi chirurgica quella di Handke, spezzata in periodi brevi o brevissimi, altrettanto frantumata, fatta di sequenze rapidissime continuamente interrotte, quasi tranciate, frantumate da dissolvenze in nero capaci di sottolineare in maniera straordinariamente efficace l’insignificanza di ogni azione del protagonista.
L’intreccio, come da tradizione tanto di Handke quanto, soprattutto, di Wenders, è ovviamente esile, pressoché ridotto al minimo. Ciò tuttavia non significa che non vi sia, nel romanzo e nel film, un solido impianto narrativo, quasi classico.
Così l’incidente iniziale (il licenziamento nel libro, l’espulsione nel film) svolge la funzione di primo colpo di scena, mentre la sequenza dell’omicidio è a tutti gli effetti la spannung del racconto.
Si tratta, di nuovo in egual misura nel film e nel libro, di una spannung completamente sui generis. Anzitutto, non vi è alcuna sequenza preparatoria, nessun messaggio anticipatore, nessun segnale che possa far presagire il delitto. L’incontro tra Bloch e la cassiera del cinema è del tutto casuale come casuale è stato tutto il suo vagare precedente. Il silenzio del protagonista, contrappuntato dalla gioiosa loquacità della donna, volutamente non rappresenta un segnale della tragedia imminente, essendo il silenzio caratteristica essenziale e specifica di Bloch sin dall’inizio.
L’omicidio avviene allora nell’unico modo possibile. All’improvviso, inatteso, casuale come tutto il resto. A Handke basta una frase, improvvisa e spiazzante «Improvvisamente la strangolò». A Wenders una sola, improvvisa, brevissima e indimenticabile sequenza. Fredda e neutra, priva di elementi anticipatori.
Da questo punto in poi, in piena coerenza con la scelta di cambiare l’incipit, la struttura del film diventa altro da quella del romanzo. La mano di Wenders si fa più evidente, e pur conservando il montaggio sincopato e “paratattico” dell’inizio, la narrazione si distende e si dilata, demolendo come già rammentato ogni stereotipo di genere.
A partire dalla fuga del colpevole. Anche perché, quella di Bloch, specie nella versione cinematografica, non è una fuga post delitto. La sua vera fuga di Bloch è iniziata molto prima, subito dopo l’espulsione nel campo da gioco. Quella che segue l’omicidio è una sorta di parodia della fuga, una “metafuga” in cui l’assassino, non ricercato da nessuno poiché anonimo, un signor nessuno in un freddo mondo di nessuno, anziché cambiare identità o ingaggiare una partita a scacchi con la legge, dissemina volutamente, o meglio stancamente, con la solita alienata indolenza, un campionario di prove che lo possano incastrare. Un pollicino al rovescio che lascia molliche allo scopo di essere trovato, come se la possibile cattura e incriminazione possano essere le uniche testimonianze di esistenza possibile. Una dimensione di viaggio perenne che, per quanto di fondo fedele al romanzo, è assolutamente wendersiana.
Nel finale, le due opere trovano l’ennesima identità. Ovvero, entrambe rinunciano alla conclusione classica che un plot – poliziesco o meno – incentrato su un omicidio pretenderebbe: la soluzione del crimine, la ricomposizione della frattura con la cattura del colpevole. O, al limite, con il suo trionfo e con la sconfitta della legge. In questo caso non succede nulla, non vi è alcuna spiegazione né ricomposizione. Il tutto perché, sempre nella più totale e agghiacciante banalità, non è possibile ricomporre niente, in un mondo in frantumi.
Che produce un effetto molto più forte nel romanzo, che pure nel perimetro del genere era rimasto.
Per Handke, il romanzo (e la sua trasposizione filmica) rappresenta il primo successo internazionale, il primo tassello sulla strada della consacrazione che culminerà con la vittoria del premio Nobel. Per Wenders, il film rappresenta l’uscita dall’anonimato e l’ingresso nella cerchia ristretta dei più promettenti registi europei di inizio decennio.
Per entrambi, l’alba di una carriera incredibile. E la prima tappa di una collaborazione che darà vita a opere indimenticabili, a partire da quello splendido apologo che sarà, quasi vent’anni dopo, Il cielo sopra Berlino.
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