Chiunque volesse leggere l’autobiografia di un maestro come Ingmar Bergman per raccogliere aneddoti e curiosità sulla carriera cinematografica di uno dei più grandi autori di tutti i tempi rimarrebbe probabilmente deluso. Eppure Lanterna magica è il manifesto del cinema del regista svedese più famoso di sempre.
Una doverosa premessa: lo spazio dedicato alla settima arte nelle pagine del libro, edito in Italia da Garzanti, è tutto sommato marginale. L’attività a cui Bergman dedica la massima attenzione è infatti quella teatrale, con le numerose rappresentazioni dell’amato Strindberg, i dettagli di tutti gli ostacoli a cui far fronte per le messe in scena e le descrizioni delle personalità più influenti incontrate lungo il suo percorso da figlio pieno di complessi e frustrazioni di un pastore protestante di provincia ad autore ammirato e venerato in tutto il mondo. Perfino quando si addentra negli aspetti più personali il cinema non viene quasi nominato: tanto per fare un esempio, una delle relazioni più intense della sua vita da donnaiolo fu quella con l’attrice Liv Ulmann (Persona, Sussurri e grida, Scene da un matrimonio i primi film che vengono in mente pensando al sodalizio artistico tra i due, che non si limitò a queste tre pellicole) eppure della loro collaborazione sul set non viene quasi mai fatta menzione.
Il regista con Liv Ullmann
Sembra che il grande Bergman giochi a nascondersi! Relativamente poche righe sono dedicate alla lavorazione dei suoi film e il capolavoro forse più celebre – Il settimo sigillo – viene liquidato in pochissime battute. Dei colleghi sul set, neanche a parlarne. Fuggevoli cenni su Ingrid Bergman (con cui la collaborazione per Sinfonia d’autunno si rivelò difficile: la signora Rossellini si rivelò in disaccordo con molte scelte del regista e il suo status di celebrità internazionale la faceva sentire autorizzata ad assumere un atteggiamento capriccioso) e l’altra star svedese, Greta Garbo. una pagina per l’incontro con mister Charlie Chaplin. Anche il grande Laurence Olivier è ricordato per la sua proposta di rappresentare Hedda Gabler per il National Theatre di Londra, con Maggie Smith nella parte della protagonista, nonostante il lord pensasse che “Ibsen e Strindberg erano dinosauri irrappresentabili, buoni solo per dimostrare la rovina del teatro borghese”1. I due giganti si separarono il giorno della prima e Bergman tornò a Stoccolma, non senza aver ristabilito gli ambiti delle rispettive grandezze: lo svedese bollò come “trascurato” il film Tre sorelle diretto da Olivier, mentre l’inglese criticò la debolezza della regia durante la prova generale a teatro.
Sul set di Sinfonia d’autunno con Ingrid Bergman
Ma allora quali sono le ragioni che rendono Lanterna magica un libro imperdibile per gli amanti del cinema? Personalmente ne individuo due. La prima è la sincera – al punto da essere incredibile, se non insostenibile, per il lettore non avvezzo al mondo nordeuropeo – descrizione dei sentimenti dell’autore, che l’appassionato spettatore ritrova in molti lavori cinematografici. Come per i protagonisti dei suoi film, quello di Bergman è veramente un cuore messo a nudo fin dalle prime pagine attraverso la testimonianza sul rapporto con i genitori – conflittuale con il padre, più affettuoso con la madre – con i fratelli, sulle amicizie e le sfortunate disavventure. Un mosaico di sentimenti che Bergman mette in vetrina, intrecciandolo con le riflessioni intime e private, e senza preoccuparsi del giudizio morale del lettore. Il grande regista si rende infatti protagonista dichiarato di squallidi litigi con le amanti, di miseri tiri mancini ai collaboratori, di gelosie assortite che certo contribuiscono a un quadro tutt’altro che edificante. Tra i colleghi, parole al miele vengono praticamente riservate solo a due svedesi, il montatore Oscar Rosander e il direttore della fotografia di tante sue opere (e non solo!) Sven Nykvist, definito “il migliore al mondo”.
Le emozioni descritte sono anche violente perché quella di Bergman è una vita tutt’altro che ordinaria, come apprendiamo seguendo un percorso che intreccia i piani temporali senza preoccuparsi di seguire un ordine cronologico lineare. Ritroviamo il mondo di Fanny e Alexander nella descrizione dei momenti vissuti in casa della ricca zia Anna o nel ricordo dell’amato zio Carl, inventore demente morto travolto dal treno. Impossibile che i conflitti tra i genitori non abbiano influenzato il futuro autore di Scene da un matrimonio, La vergogna o L’adultera. E ancora una certa dimestichezza culturale con il suicidio – quello di una domestica che, licenziata dal padre di un Ingmar ancora bambino inconsapevole, rimasta incinta di un uomo sposato che non riconosce il figlio decide di farla finita – troverà eco in tanti film così come i conflitti lavorativi, le difficoltà di coppia e le domande esistenziali (il figlio di un pastore protestante è certo il candidato naturale per realizzare la famosa “trilogia religiosa” Come in uno specchio, Luci d’inverno, Il silenzio). La vita di Bergman come un film di Bergman: questo in sintesi il primo motivo per raccomandare ai cinefili la lettura di un libro comunque appassionante, ricco di episodi leggibilissimi come la testimonianza oculare della visita di Adolf Hitler a Weimar dove Bergman trascorreva un soggiorno studio per imparare il tedesco o l’incontro con il maestro Von Karajan capace di esercitare il fascino ipnotico della sua personalità anche su un Bergman già maturo e affermato.
La seconda ragione per intraprendere la lettura è più indiretta, legata soprattutto alla dimensione professionale, e offre lo spunto per una riflessione più legata allo stile del regista. Contrariamente a quanto si può pensare apprezzando i temi “alti” del suo cinema fortemente esistenziale, il mondo di Bergman è popolato di invidie, ripicche, antipatie e chi più ne ha più ne metta. Chi è convinto che gli svedesi non siano passionali dovrà ricredersi dopo la lettura. Il mondo del teatro viene descritto come spietato e i suoi protagonisti intenti soprattutto a perseguire i propri interessi, non solo artistici. Inoltre non bisogna dimenticare che Bergman incominciò a lavorare nel cinema partendo dalla gavetta, prima come sceneggiatore, poi come apprendista e aiuto praticante. Solo in un secondo momento entrò in scena come regista e come autore (da ultimo perfino come produttore), pertanto ebbe modo di farsi un’idea molto chiara su come condurre il lavoro. “Il ritmo dei miei film viene concepito nella sceneggiatura, a tavolino, e viene generato dinanzi alla cinepresa. Ogni forma di improvvisazione mi è estranea. Se qualche volta sono costretto a prendere una decisione senza averci riflettuto sopra, comincio a sudare, m’irrigidisco per la paura. Il cinema è per me un’illusione progettata nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria”2. La sua visione prevedeva pertanto una disciplina molto rigida che spiega perfettamente il rigore formale e la nitidezza dei suoi film.
Insieme al figlio Daniel e alla quarta moglie Kabi Laretei
Miloš Forman sosteneva che esistono pochi registi in grado di realizzare uno spettacolo teatrale altrettanto bene quanto un film e tra questi indicava in Bergman il migliore. Leggendo Lanterna magica si capisce quanto questa affermazione sia azzeccata: sebbene Bergman si considerasse innanzitutto un regista di teatro, la sua capacità di narrare per immagini, la naturalezza nel sovrapporre piani temporali e la ricchezza delle esperienze vissute sono sicuramente più adatte allo schermo e hanno contribuito a rendere Bergman un protagonista di primo piano del cinema del Novecento.
1 Ingmar Bergman, Lanterna magica, Garzanti, Milano, 1987 – pag. 213
2 Id. – pag. 70-71
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