Premio Oscar 1976 per il miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura non originale, miglior attore protagonista e migliore attrice protagonista (una delle tre pellicole, insieme ad Accadde una notte e Il silenzio degli innocenti ad aggiudicarsi i cosiddetti “big five”), il trionfo di Qualcuno volò sul nido del cuculo è totale. Più ancora dell’elenco dei riconoscimenti ricevuti a tutte le latitudini ritengo che sia più efficace – per offrire la reale dimensione del successo di Forman – scorrere l’elenco di chi si è dovuto accontentare della nomination alla 48esima edizione della cerimonia di premiazione del premio più celebre: il film viene preferito a uno dei blockbuster più famosi di sempre come Lo squalo, a prove d’autore come i solidi Nashville e Quel pomeriggio di un giorno da cani e perfino a un capolavoro come Barry Lyndon. Il cineasta cecoslovacco prevale su Kubrick, Altman e Lumet (e sul Fellini di Amarcord) anche per il premio alla regia, Jack Nicholson la spunta su concorrenti del calibro di Al Pacino e di Walter Matthau (I ragazzi irresistibili) e Louise Fletcher sulla meravigliosa Isabelle Adjani di Adele H. mentre il duo di sceneggiatori Lawrence Hauben e Bo Goldman completa l’en plein lasciando a bocca asciutta ancora Kubrick ma anche John Huston e Gladys Hill (L’uomo che volle farsi re), il duo nostrano composto da Ruggero Maccari e Dino Risi (Profumo di donna) e Neil Simon (I ragazzi irresistibili).
Com’è noto, il film racconta la storia del delinquente imbroglione Randle McMurphy, il tipico esempio di outsider stravagante che non riesce a uniformarsi alla massa. Quando viene ricoverato in un manicomio d per consentire ai medici di valutare la sua salute mentale, la naturale intolleranza dell’uomo per l’autorità si scontra con la gelida personalità di Miss Ratched, la capo-infermiera. Artefice di un rigoroso ordine che non vuole venga in nessun modo turbato, Miss Ratched ostacola ogni iniziativa del nuovo ricoverato. Incarnando la ribellione e la vitalità, Mc Murphy conquista subito la simpatia e, un passo alla volta, anche la fiducia degli altri ospiti, legandosi in particolare al “Grande Capo” Bromden, un enorme pellerossa che si finge sordomuto (e che rivelerà solamente a McMurphy il suo segreto) e al timido Billy Bibbit, un giovane ossessionato dalla figura distruttiva e castratrice della madre. L’insofferenza di McMurphy per le regole del manicomio lo spinge a organizzare la fuga insieme al “Grande Capo”. Corrompe una guardia e improvvisa una festicciola a base di donne e alcool, durante la quale costringe una delle sue amichette ad iniziare Billy alle gioie del sesso. La situazione sfugge di mano e i malati si fanno sorprendere addormentati dall’arrivo del personale e di Miss Ratched. A farne le spese in particolare è il povero Billy, che si suicida quando l’infermiera lo minaccia di denunciare alla madre il suo comportamento. Per McMurphy è troppo: in un accesso d’ira tenta di strangolare la donna e per questo finisce lobo- tomizzato. Quando gli infermieri, dopo il trattamento, ripor- tano l’uomo nella camerata il “Grande Capo” Bromden non resiste alla vista dell’amico ridotto a un vegetale e, durante la notte, lo avvicina e – dopo avergli sussurrato “andiamo” – lo soffoca con un cuscino. Entrato nei bagni, sradica un lavandino con cui sfonda le inferriate della finestra per fuggire verso le montagne, tra le urla liberatorie dei compagni.
Un successo strepitoso e una trama tutto sommato lineare che possono trarre in inganno: pochi film hanno avuto una genesi più travagliata. È il 1973 quando Michael Douglas acquista dal padre (che ormai si sentiva – giustamente – troppo vecchio per i panni del protagonista già indossati senza successo a Broadway) i diritti della sceneggiatura tratta dall’omonimo romanzo di Ken Kesey e la invia a Milos Forman. Senza saperlo, Michael sceglie lo stesso regista del genitore che, nel 1965, aveva mandato al cineasta boemo allora in rampa di lancio dopo i successi de L’asso di picche e Gli amori di una bionda lo script tratto dal lavoro di uno degli esponenti della beat generation. All’epoca Kirk non riusciva a trovare nessuno negli Stati Uniti che volesse produrre il film perché il soggetto veniva considerato troppo deprimente quando individua nel regista cecoslovacco capace di ottenere buoni risultati lavorando velocemente e con budget ridotti la figura ideale! I due si incontrano e la superstar chiede a Forman se può mandargli il libro affinché potesse fornirgli il suo parere dopo la lettura. Forse trattenuto da qualche zelante funzionario comunista, la copia proveniente dagli Stati Uniti non giunse mai a Forman. Poco male perché quando Forman si metterà definitivamente al lavoro, reduce dall’abbandono di un progetto da cui Scorsese anni più tardi realizzerà Re per una notte, lo farà con i budget necessari ad affrontare il difficile adattamento dello spigoloso libro di Ken Kesey.
Lo scrittore, nato a Springfield, Oregon, nel 1935, come ogni americano che si rispetti fa in gioventù tanti mestieri, tra i quali il lottatore e – soprattutto – l’infermiere nel reparto psichiatrico di un ospedale. Da questa esperienza e dalla possibilità di conoscere in prima persona i violenti trattamenti a cui erano sottoposti i pazienti, così contrari allo spirito ribelle e libertario di Kesey, nasce il romanzo che nel 1962 gli dà la fama, al quale segue Something a Great Notion, da cui Paul Newman ha tratto un film robusto e ambiguo distribuito in Italia con il titolo di Sfida senza paura. Dopo di che Kesey conosce il suo bravo “sballo”, diventa profeta della marijuana e dell’LSD e con i suoi Merry Pranksters (gli “Allegri burloni”) gira gli States su un pullman variopinto, frequentando alternativi di ogni genere, da Timothy Leary ai figli dei fiori, da Bob Dylan agli Hell’s Angel. Quando Forman arriva in possesso del suo romanzo, la temperie culturale che lo ha partorito si è quasi completamente esaurita, e lo scrittore, persa buona parte del suo carisma, si è ritirato in campagna dove coltiva la terra e scrive storie di mucche e tori superdotati (Abdul and Ebenezer). Non solo: lo stile allucinato e fortemente impattante del libro, ricco di visioni oniriche e violente, è poco adatto alla resa sul grande schermo e Forman lo capisce subito. Dopo una collaborazione alle prime versioni della sceneggiatura, Kesey si ritira subito per contrasti insanabili dal progetto per il film, soprattutto quello riguardante il narratore (che secondo l’autore doveva essere il Grande Capo Bromden).
Risolti i problemi con l’autore (e con il direttore della fotografia Haskell Wexler, sostituito dal fido di Forman Miroslav Ondříček), Douglas in coproduzione con Saul Zaentz e la United Artists si mette al lavoro e avvia su solide basi la trasposizione cinematografica. Tutto a posto quindi? Neanche per sogno perché la selezione degli attori per le parti principali è a dir poco travagliata. “Avevamo cinque attrici, cinque stelle che hanno rifiutato la parte, perché nei Settanta, in pieno movimento di liberazione delle donne, non era chic impersonare il cattivo e tutte volevano interpretare l’eroina”1 ricorda Michael Douglas. L’interprete di Miss Ratched, l’attrice Louise Fletcher, ha firmato il contratto una sola settimana prima delle riprese. Il casting per questo ruolo è durato un mese e mezzo coinvolgendo attrici del calibro di Colleen Dewhurst, Geraldine Page, Anne Bancroft, Ellen Burstyn, Jane Fonda e Angela Lansbury. Per il ruolo fondamentale di Bromden è stato scovato da un concessionario d’auto canadese il gigantesco nativo americano Will Sampson, senza precedenti esperienze di recitazione che si definirà sempre “un pittore, non un attore”.
Un discorso a parte merita il protagonista. Per la parte erano stati inizialmente contattati Gene Hackman e Marlon Brando (che si rifiutò però di leggere lo script), ma il più vicino di tutti a concludere l’accordo fu James Caan. Alla fine prevalse Jack Nicholson che, dopo il successo di Easy Rider, era in ascesa forte di quattro nomination all’oscar e del successo di critica e pubblico ottenuto l’anno precedente per Chinatown di Roman Polanski. L’assegnazione del ruolo a Nicholson – dopo i rifiuti di Caan e di Brando, che si rifiutò persino di leggere il copione – fu la chiusura di un cerchio perché l’attore conosceva già il soggetto, di cui cercò di comprare i diritti già nel 1963, venendo però anticipato da papà Douglas. Sulla collaborazione tra l’attore e Forman risultano versioni discordanti: c’è chi attribuisce al primo il principale merito per la riuscita del film, ridimensionando l’idillio tra i due e soprattutto il ruolo del regista.
Anche la scelta della location fu avventurosa. Il direttore dell’ospedale Statale Psichiatrico dell’Oregon di Salem, il Dr. Dean R. Brooks, fu l’unico a rendere il suo istituto accessibile alla troupe: ovviamente il romanzo di Kesey non era popolare tra gli psichiatri, eppure Brooks diede la sua disponibilità a patto di poter utilizzare le riprese come terapia per i suoi pazienti. Durante la lavorazione del film, il suo contributo si ampliò e il dottore riscrisse alcune battute previste per il personale medico, rendendo più credibile la sceneggiatura. Tra le comparse appaiono anche diversi veri pazienti malati di mente oltre ad altri attori non professionisti, come consuetudine di Forman.
Ha del miracoloso il risultato eccelso di Qualcuno volò sul nido del cuculo, che è diventato rapidamente un capolavoro senza tempo. Apparentemente messo insieme da un gruppo disomogeneo di neofiti e disadattati di Hollywood ma che, oltre ai cinque Academy Award, ha incassato più di 163 milioni di dollari in tutto il mondo. Le vie del cinema sono infinite.
1 Cfr. il docufilm di Antoine de Gaudemar, Il était une fois…Vol au-dessus d’un nid de coucou/Es war einmal…Einer flog über das kuckucksnest
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