Fra gli intellettuali che si riunivano intorno a Mario Pannunzio, direttore del Mondo, al Caffè Rosati di via Veneto (che nel 2022 ha celebrato i cento anni dalla nascita del primo bar in Piazza del Popolo a Roma), uno dei profeti più ascoltati era proprio Ennio Flaiano (Pescara 1910-Roma 20 novembre 1972), “magna pars in questa conventicola di intellettuali” come ricorda Ugo Gregoretti (1930-2019) in una trasmissione speciale di Rai Storia dedicata a Flaiano. Gregoretti aveva allora 25 anni, eravamo quindi a metà degli anni Cinquanta; ascoltava Flaiano in devozione (“pendevamo dalle sue labbra”). Flaiano compare anche nella famosa foto di gruppo del caffè Greco (1948) dove potete vedere, seduti ai tavolini, e con lo sguardo diretto all’obiettivo del fotografo, anche Aldo Palazzeschi, Carlo Levi, Orson Welles e Vitaliano Brancati. 

Ennio Flaiano nacque a Pescara, città natale di Gabriele D’Annunzio: Flaiano e il Vate, due personaggi che più antitetici di così non si potrebbe. Flaiano è uno scrittore poliedrico e vagabondante fra generi letterari, lucido e spesso sarcastico, “indeciso a tutto” come avrebbe detto il suo amico Leo Longanesi: giornalista, narratore, sceneggiatore, umorista autore di celebri sentenze attualissime (“Oggi il cretino è specializzato” “L’insuccesso mi ha dato alla testa”), inventore di neologismi come paparazzo e vitelloni, prolifico collaboratore di Cinecittà come soggettista e sceneggiatore, Ennio Flaiano è lo scrittore postumo per eccellenza. Quasi tutti i suoi libri sono usciti dopo la sua morte, a parte Tempo di uccidereche gli valse lo Strega nel 1947 (Flaiano fu il primo vincitore di questo premio), Un marziano a Roma (1956) e Diario Notturno. E fra le opere postume potete leggere anche l’Autobiografia del Blu di Prussia, il Diario degli erroriLa solitudine del satiro (apparso per la prima volta nel 1973) e Frasario essenziale per passare inosservato in società uscito in prima edizione per Bompiani nella collana I portici nel 1986 e introduzione di Giorgio Manganelli.

Ennio Flaiano arriva a Roma nel 1922. Nel 1943 comincia a collaborare con il mondo del cinema. Fra gli amici alla mitica libreria Rossetti, in via Veneto, Flaiano incontra il poeta Vincenzo Cardarelli. Via Veneto ha ancora un’aria campagnola. Ma negli anni Cinquanta cambia tutto, come ricorda lo stesso Flaiano: “via Veneto non è più una strada, ma una spiaggia, le conversazioni sono diventate balneari, barocche e si riferiscono quasi esclusivamente a temi gastrosessuali”. In questo clima matura La Dolce vita. Nel 1950 diventa sceneggiatore privilegiato di Federico Fellini. “In Italia -precisa Flaiano- ci sono due registi, Fellini e Antonioni; il problema è che il primo va verso l’abbigliamento, il secondo verso la fotografia”.

Ha collaborato con 8 film di Federico Fellini (fra i quali Lo sceicco Bianco, 1952; I vitelloni, 1953  per cui è autore anche del soggetto; La dolce vita, 1960, e 8 e mezzo), è autore delle sceneggiature di film cult come Guardia e Ladri (1951) di Monicelli e Steno, Vacanze romane (1953) di William Wyler,  suoi soggetto e sceneggiatura di Totò e Carolina (1955), de la ragazza in vetrina (1961) di Luciano Emmer,  e di Fantasmi a Roma (1961) di Antonio Pietrangeli. 

Ecco come Ennio Flaiano si descrive in una sorta di curriculum vitae o nota autobiografia tratta dal Frasario:  «Sono nato a Pescara. In un 1910 così lontano e pulito che mi sembra di un altro mondo. (…) Roma è la mia vera città. A Roma, da giovane, ho trascorso anni in giro, la notte, col poeta Cardarelli e Guglielmo Santangelo, due maestri di indignazione e di vita. A Roma ho conosciuto i primi scrittori, i primi artisti, i giovani che facevano la fame e le donne che facevano compagnia. Ho cominciato a scrivere molto tardi, satire e note critiche, senza mai pensare alla narrativa. Nell’inverno del ’46, trovandomi solo a Milano, ho scritto il mio primo e unico romanzo. Era la “mia Africa”, adattata ai miei panni, un apologo: Tempo di uccidere. Il libro vinse un premio, la critica lo accolse bene, male, tiepidamente. Un critico scrisse che mi aspettava alla seconda prova. Sta ancora aspettando.  (…) Nel ’49 Pannunzio mi chiamò redattore al “Mondo”, vi tenni una rubrica che poi raccolsi in volume, Diario Notturno, assieme ad altri scritti. Il cinema mi offrì in quegli anni una vita economica meno aspra. Ho collaborato con Fellini a otto dei suoi film, ho scritto altre storie per altri registi. infine, tutto tempo perso, idee e pagine buttate al vento. Nel ’59 un altro volume di racconti, e poi una commedia, Un marziano a Roma, la sola cosa. Che mi piace e che andò male».

Tornando alle frasi famose, ai motti di Flaiano, alcuni non sono in realtà suoi, anche se gli sono stati attribuiti: “Ho poche idee ma confuse” è di Mino Maccari: 

“Appena un mese fa parlavo con Mino Maccari. Che si fa? Niente, si aspetta. Godot? No si aspetta la rivoluzione. Chi dovrebbe farla, i fascisti? «I fascisti» gli ho ricordato «sono una trascurabile maggioranza». Maccari ha precisato: «il fascismo si divide in due parti: il fascismo propriamente detto e l’antifascismo». Tutti e due vogliono confusamente ma subito le stesse cose: ordine, lavoro, democrazia, livellamento delle classi, un partito autoritario, nessuno vuole la libertà. Ossia ognuno vuole la sua versione della libertà, che consiste nel sopprimere quella dell’altro (da La solitudine del satiro).

È invece di Flaiano uno delle note più divertenti del Diario degli errori: “Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la ricorda, l’inverno l’invoca, la primavera l’invidia e tenta puerilmente di guastarla”. Come alcuni personaggi di Fellini, per esempio il giornalista Marcello Rubini (interpretato da Marcello Mastroianni) ne La dolce vita, Flaiano oscilla in quella dimensione di  flânerie accidiosa eppure tutt’altro che inattiva (“ho vissuto con i piedi saldamente attaccati alle nuvole”). Anche il protagonista de La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino potrebbe ricordare un intellettuale alla Flaiano, sebbene Jep Gambardella, il giornalista e scrittore interpretato da Toni Servillo, sia molto più dandy, mondano e frivolo di Flaiano. Ne La Solitudine del satiro, Flaiano annota: “Cambio di umore e di idee seguendo il corso del sole. La mattina odio la società, la sera l’amo. Al mattino, leggendo i giornali, tutto mi è di peso: la commozione delle classi medie, l’insolenza degli estremisti, la beatitudine dei governanti. Col trascorrere delle ore mi sento più portato a comprendere gli altri punti di vista, persino a tollerare e a sorridere. Scende infine la sera; ma sì, tutto va meglio, l’Italia è il mio paese, gli italiani sono simpatici con tutti i loro difetti, la rivoluzione può essere rinviata. L’indomani sono daccapo: solitudine totale, rinuncia, o tuffo nella realtà? Dovrò compiere altre rivoluzioni attorno al mio asse, in ventiquattro ore.”

Questo lo rende difficilmente classificabile anche come scrittore, come conferma Giorgio Manganelli nell’introduzione al Frasario Essenziale (1986): «Credo che sia chiaro come la definizione ormai canonica di Flaiano come scrittore “satirico” sia talmente da interpretare, da essere pericolosamente inutile. La capacità di Flaiano di oscillare sull’orlo del tragico e di distrarsene in temo per conseguire il rapido lembo del ricordo -o del risibile- lo propone come uno scrittore di straordinaria complessità, tanto più inafferrabile perché non è possibile chiuderlo nei limiti di uno scrittore di genere: sebbene abbia scritto romanzi non è romanziere, non è drammaturgo, non è giornalista, e tuttavia è tutte queste cose e altre ancora».

Autore

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Trending