Il titolo originale, Experiment in Terror, è da prendere alla lettera: un’esperienza, un saggio nel campo del terrore. Fin dai titoli di testa, e con la superba musica di Henry Mancini, Blake Edwards estrae l’ansia fuori dal paesaggio apparentemente pacifico della Baia di San Francisco, al calare della notte, ma qui descritto cupo e spettrale. Il disagio si fa più chiaro pochi minuti dopo, nella banale cornice di un garage privato: una mano guantata di nero si posa sulla bocca di Lee Remick, premuta con forza da un uomo il cui volto resta in ombra e la cui voce, con un sibilo asmatico, preannuncia con calma minacce di morte. Più gli ambienti sono quotidiani, più il terrore è diffuso e può manifestarsi in qualsiasi momento e ovunque. Nessun sentimentalismo. Nessun effetto spettacolare.
Un cambio di registro radicale e di grande successo per Blake Edwards, che non è solo il regista di commedie leggendarie, sofisticate, come Colazione da Tiffany ed esilaranti come La Pantera Rosa. È anche regista di film più “seri” come I giorni del vino e delle rose, Peter Gunn: 24 ore per l’assassino, Il caso Carey e soprattutto di questo attanagliante film noir Operazione terrore (1962), tratto da un romanzo poliziesco scritto dai coniugi Gordon (Mildred e Gordon), che ne hanno anche firmato l’adattamento, una storia oscura tra un ricattatore (Ross Martin) che terrorizza una giovane donna (Lee Remick) per sottrarre una grossa somma di denaro alla banca in cui lavora, altrimenti ucciderà la sorella minore Toby (Stefanie Powers). Ma la donna si rivolge a un agente dell’FBI (Glenn Ford) che organizza la caccia a quest’uomo sconosciuto, la cui unica particolarità notata dalla donna minacciata è il respiro sibilante, a scatti e asmatico. Le indagini hanno inizio, ma lo psicopatico, che ha confessato due precedenti omicidi, sembra determinato.
Prova di virtuosismo tecnico, splendida fotografia firmata dal leggendario Philip H. Lathrop. Uno dei bianco&nero più belli degli anni ’60 e che affascina fin dall’apertura, dove i titoli di testa sono commentati dalla sublime partitura di Henry Mancini. Il tono è indicato da questi titoli, lo spettatore deve provare paura. San Francisco viene mostrata come una città inquietante, dove la violenza può esplodere ad ogni angolo di strada, come quel vicolo cieco nel quartiere di Twin Peaks che sarebbe anche l’origine del titolo della serie di David Lynch e Mark Frost.
Il film noir è generalmente associato alle ambientazioni urbane e Edwards distorce le ambientazioni di San Francisco con i suoi stretti ponti e gli affascinanti tram. Aumentando la minaccia di un paesaggio sofisticato, non fa altro che renderlo più terribile e applica alla perfezione una delle costanti del film noir: anche se la città appare serena e rispettabile, contiene pericoli indicibili che possono manifestarsi nei momenti più inaspettati.
«Sono un grande fan dei romanzi polizieschi e il mio vecchio lavoro alla radio mi ha fatto fare molta esperienza in questo campo. Lo script era perfetto nel suo genere. Mi ha permesso di dimostrare la mia efficacia e le mie conoscenze tecniche. È un genere che mi diverte. Volevo fare qualcosa di nuovo, qualcosa di totalmente diverso da tutto ciò che avevo fatto prima. Sono piuttosto impulsivo e l’ho fatto. Questo è un film in cui la tecnica prevale sul resto e in particolare sulle reazioni psicologiche. Ho usato la fotocamera per creare effetti reali. Quindi non volevo che si potesse vedere l’intera testa del criminale e ho preferito mostrare solo la sua bocca che respira e parla al telefono. [L’Héritage du film noir – Patrick Brion – Editions de La Martinière (2008)]
Notevole la gestione dei caratteri. Il personaggio di Kelly (Lee Remick) è descritto totalmente solitario. Non vediamo i suoi genitori né un possibile fidanzato, poiché le avances del collega di lavoro non sembrano molto apprezzati… Vive con la sorella minore Toby (Stefanie Powers). L’eroina, pur controllata dalla polizia, appare vulnerabile, facile preda del suo aggressore. A casa si sente ancora più in pericolo, nonostante i piani dell’F.B.I. prevedano di proteggerla costantemente. Nei paesaggi urbani del film noir, rimarca Edwards, non esiste un luogo veramente sicuro.
Rispetto a lei Red Lynch (Ross Martin) è appena più ambiguo. Apprendiamo che è un criminale recidivo. È lui che uccide Nancy Ashton (Patricia Huston) in un laboratorio di modelle, ma è anche lui che finanzia le cure mediche del figlio di Lisa (Anita Loo). Questo stesso Red Lynch si diverte a costringere la giovane Toby a spogliarsi, a togliersi il maglione e la gonna. Difficilmente potrebbe essere più audace nel 1962!… L’assassino appare solo raramente, una presenza indecisa e vaga, dal respiro asmatico che sibila come un sussurro malizioso. Non è raro che i criminali dei film noir siano affetti da qualche deformità che rivela la loro corruzione interiore: lo zoppo in La signora di Shanghai, per esempio; a volte una mania o un’ostentazione possono avere lo stesso ruolo, come la risata acuta di Richard Widmark ne Il bacio della morte. In Experiment in Terror, il sussurro gutturale di Ross Martin evoca una minaccia calma ma mortale.
Quanto a John Ripley (Glenn Ford), incarna l’efficienza dell’FBI, anche se non può impedire l’omicidio di Nancy Ashton.
Henry Mancini ha composto una lenta melodia con un’arpa che riecheggia la voce fluida dell’assassino. Il connubio tra suono e immagine si realizza simultaneamente in ogni momento del film. Così, una sequenza è scandita alla fine da un urlo di paura e poi vediamo una bambina in una piscina, che piagnucola perché qualcuno sta per spingerla giù dal trampolino. La tensione diminuisce momentaneamente quando ci rendiamo conto che si trattava di un grido di gioia, ma riaffiora qualche secondo dopo: la bambina sta per essere rapita. Uno degli informatori dell’FBI viene ucciso in un cinema mentre sullo schermo è proiettato un film muto, una commedia frenetica accompagnata dagli accordi aspri di un pianoforte.
Con una precisione quasi documentaristica, Blake Edwards mostra come le autorità si organizzano per mettere le mani sullo squilibrato. Le intercettazioni telefoniche, gli inseguimenti, la sorveglianza a distanza si susseguono senza alcuna interruzione, con un disagio che cresce sempre più. Il titolo originale, Experiment in Terror, ispirato da una battuta del film, sintetizza il senso di questo lungometraggio per il cineasta, che utilizza il cinema noir per dimostrare tutta l’eclettismo e il virtuosismo del suo talento. Dai titoli di testa alla prima minaccia all’interno del garage di casa, senza tralasciare la sequenza angosciante dei manichini e la trappola tesa alla fine in uno stadio gremito, Operazione terrore è un film che lascia il segno fino al suo culmine, la partita di baseball in un affollato Candlestick Park. Un finale dalla freddezza di un’esecuzione capitale
L’assassino emerge dalla folla come una sorta di figura che sale dal subconscio americano nel bel mezzo dell’intrattenimento nazionale. Circondato, incappucciato nel parka, occhiali da sole sugli occhi, muove i suoi ultimi passi sulla pedana di lancio, illuminata dai riflettori davanti a migliaia di spettatori; lì, improvvisamente affronta la morte. L’assordante ruggito di un elicottero sembra schiacciarlo al suolo come un insetto. Si potrebbe dire che tutta l’America è una sorta di arena in cui si svolgono gli incubi dei film noir. Che sia nel deserto Kezar Stadium, dove l’ispettore Callaghan ferma l’assassino in un’imboscata, o nell’affollato stadio di Experiment in Terror, non possiamo che essere sensibili alla forza epica e simbolica che emerge da tali scontri.
Operazione terrore ha certamente ispirato Don Siegel per Dirty Harry e Henri Verneuil per Il poliziotto della brigata criminale e, pur non essendo il film più noto o più emblematico del regista, è uno dei suoi lungometraggi più notevoli e probabilmente uno dei più grandi thriller della storia del cinema (curiosamente nessuno ha notato che il filone argentiano gli è fortemente debitore).
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