La forma del saggio da sempre incarna una sorta di riconquista del territorio della riflessione, approfondendo alcune tematiche.
I saggisti, partendo dall’analisi di documentazione consultata, quindi da tanti pensieri ereditati e saperi condivisi che utilizzano per i propri scopi, che sviluppano (e rigenerano) in qualcosa di nuovo e di diverso, creano la loro nuova opera.
È noto che non si legge un romanzo come un saggio, perché le finalità sono differenti. A pensarci bene, poi, un romanzo è facilmente riassumibile nella mente del lettore, mentre il saggio contiene complessità che il lettore non può memorizzare integralmente (tant’è che spesso un testo saggistico appare pieno di annotazioni del lettore).
Il saggio è legato al sapere, il romanzo all’evasione culturale. Il saggio richiede una certa cadenza, mentre il romanzo ha un orizzonte stilistico più libero. Il saggio, poi, dev’essere “provato” (avallato) da citazioni di terzi, il romanzo mai.
Il romanzo è un’esperienza di finzione (fiction), il saggio (non-fiction) rilancia la realtà: «Il presupposto del saggio è che il lettore sta leggendo cose vere, magari paradossali e provocatorie, ma tanto più tali quanto più andrebbero prese alla lettera e da intendere in una dimensione di realtà. Il presupposto del romanzo è invece che, per quanto prelevate verosimilmente dal vero, le cose che si leggono sono da intendersi su un piano di finzione. Si tratta di convenzioni di genere, di un diverso patto fra autore e lettore. Se in un romanzo dico che ieri sono andato al cinema, nessuno è tenuto a crederlo. Se lo dico in un saggio, si deve credere anche se non è vero».[1]
Mettere a stretto contatto saggio e narrativa significa dare vita al saggio narrativo o al romanzo-saggio. Nel primo caso la narrazione, in prima persona, evoca eventi accaduti in un susseguirsi di racconto e riflessione, spesso attingendo all’aneddotica. I primi esempi che affiorano alla mente sono testi che mescolano saggistica e reportage come Gomorra, di Roberto Saviano, o Il regno, di Emmanuel Carrère. Nel secondo caso rimaniamo nell’ambito della narrazione d’invenzione, con evidenti sconfinamenti filosofici (La nausea, Jean-Paul Sartre).
Scrive Zadie Smith: «Di nuovo chiamo Virginia Woolf in veste di testimone per la difesa. “Il racconto letterale della verità”, essa sostiene, “È fuori luogo in un saggio.” Sì, eccoci di nuovo. La verità letterale è qualcosa che ci si aspetta, in cui si spera, in un articolo di giornale. Ma un saggio è un atto dell’immaginazione, anche se si tratta di una memoria autobiografica. È, o dovrebbe essere, “una forma di pensare, di coscienza, di ricerca della saggezza”, ma per scriverlo occorre tanta arte quanta ne serve per scrivere un’opera di narrativa. Un buon saggio è progettato e artificiale quanto una qualsiasi fiaba».[2]
Ecco queste veloci riflessioni mi ha destato Le ossa dei Caprotti. Una storia italiana (Feltrinelli), di Giuseppe Caprotti, che rievoca – con dovizia di particolari – la complessa storia di due secoli della sua famiglia (che per il lettore significa il marchio Esselunga). Una storia a forti tinte, a tratti un thriller sincopato, ma anche un “manuale operativo” sul mondo del retail.
Non mi interessa qui stigmatizzare gli aspetti descritti, che assumono spesso toni angoscianti, ma lodare la capacità di scrittura dell’autore che, appunto partendo dalla volontà di scrivere un saggio documentato, riesce a conferire all’operazione un respiro narrativo alto, intrigante, che risponde alla classica regola di indurre il lettore a voltare pagina per leggere cosa accadrà dopo.
Non mi stupirebbe se il libro diventasse una miniserie Netflix.
[1] Matteo Di Gesù/Michela Sacco Messineo (a cura), Conversazione con Alfonso Berardinelli, in Il saggio critico. Spunti, proposte, riletture, duepunti, 2007
[2] Zadie Smith, Scrivere un saggio è un atto dell’immaginazione, The Guardian, 2009 [Tr. Pina Piccolo]
Lascia un commento