Nel 1977, l’appena trentenne Stephen King non era ancora “The King”, ma un promettente scrittore di genere con alle spalle due ottimi romanzi di discreto successo: Carrie, del 1974, la cui famosa trasposizione cinematografica di Brian De Palma aveva garantito allo scrittore di abbandonare i precedenti lavori saltuari per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno, e Salem’s Lot del 1975, che era riuscito a vendere ben tre milioni di copie. 

Era perciò atteso al terzo romanzo come alla prova del fuoco, quella della definitiva consacrazione. Ad assolvere questo compito fu Shining, autentica pietra miliare nella spettacolare carriera dello scrittore americano e, più in generale, nell’intera storia della narrativa horror. Pubblicato appunto nel 1977, il libro ha un successo immediato (e sacrosanto), al punto da attirare immediatamente l’attenzione di Stanley Kubrick, che ne acquista subito i diritti per farne un film. 

Kubrick in quel 1977 è già un mostro sacro del cinema internazionale, ha già diretto pellicole a dir poco leggendarie comeOrizzonti di gloriaLolitaIl dottor Stranamore2001: Odissea nello SpazioBarry Lyndon Arancia Meccanica. Tutti capolavori tratti da altrettanti romanzi, più o meno noti. 

Per il giovane scrittore emergente, che Kubrick scelga proprio un suo romanzo per costruire un nuovo film, è un ulteriore e decisivo passo verso la consacrazione. 

Eppure, nonostante le più rosee premesse, il rapporto tra le due opere, e tra i due autori, si rivelò ben presto tra i più problematici e complessi di una storia di per sé tutt’altro che semplice come quella delle connessioni tra cinema e letteratura. 

Parliamo anzitutto di due grandissime opere. Un capolavoro assoluto e universalmente riconosciuto la versione cinematografica di Kubrick, tra i romanzi migliori e più inquietanti partoriti dal genio di King l’originale letterario. Questo almeno è ciò che ha decretato il tempo, la sedimentazione dei due lavori, ma non è sempre stato così. 

Oggi, nel nostro immaginario collettivo, il titolo Shining è automaticamente associato al film, allo sguardo allucinato di Jack Nicholson, al triciclo seguito dalla steadycam nei corridoi dell’albergo, alle gemelle, al labirinto coperto di neve. Al momento della sua uscita però, il film fu accolto in maniera tutt’altro che lusinghiera. Al punto che nel 1980, anno della sua uscita, vinse ben due Razzie Awards: uno a Kubrick per la peggior regia (sic!) e uno a Shelley Duvall come peggior attrice protagonista. 

Viceversa, il romanzo, viaggiava nelle librerie di mezzo mondo in maniera a dir poco trionfale. Nei soli Stati Uniti, dopo aver venduto cinquantamila copie nell’edizione rilegata, superò i quattro milioni nella prima edizione economica. Un successo così clamoroso che, oltre che a imporlo definitivamente come uno dei nomi più importanti del panorama letterario internazionale, consegnò a King le credenziali per potersi permettere non solo di snobbare, ma di criticare aspramente il lavoro di Kubrick. 

Col tempo King aggiusterà il tiro, arrivando a considerare – giustamente – Shining uno dei film horror più importanti della storia del cinema, ma non cesserà mai di ritenere il film un assoluto travisamento del suo romanzo, al punto da girare egli stesso, nel 1997, una miniserie tv, ovviamente fedelissima al romanzo ma dai risultati tutt’altro che memorabili. 

Ma polemiche a parte, di che opere stiamo parlando esattamente? Come e in cosa differiscono nello specifico?

Il romanzo, per quanto indiscutibilmente rispondente a tutti i topoi del genere horror, occupa un posto d’onore nel filone più psicologico e introspettivo della sterminata bibliografia kinghiana. Ovvero una delle matrici più riconoscibili dello stile dello scrittore ai suoi esordi. Anche i due romanzi precedenti, Carrie Salem’s Lot, rispondono a queste caratteristiche che poi, proprio dopo Shining, lasciarono il posto a un horror più puro e “sanguinolento”, salvo poi estremizzarsi in alcuni romanzi indimenticabili – La lunga marciaOssessione (infelice traduzione italiana dell’originale The Rage), L’uomo in fuga – pubblicati con lo pseudonimo di Richard Bachman. 

Il plot di Shining è arcinoto: Jack Torrance, aspirante scrittore, un passato da alcolista, senza lavoro dopo essere stato cacciato dal liceo dove insegnava Letteratura per aver aggredito uno studente (quest’ultimo primo particolare che nella riduzione cinematografica viene omesso), accetta un impiego come custode invernale dell’Overlook Hotel, albergo tra le montagne del Colorado che resta chiuso fino a primavera, situato a 65 chilometri dal primo centro abitato. 

Porta con sé la moglie Wendy e il figlio di quattro anni Danny, quest’ultimo dotato di poteri paranormali (lo “shining” cui fa riferimento il titolo – “aura” o “luccicanza” in italiano – indica proprio le percezioni extrasensoriali del bambino). Al pari del padre avverte le presenze malvage che abitano l’Overlook, ma mentre Jack le subisce, Danny, con l’aiuto dell’amico immaginario Tony, le combatte. In un crescendo di tensione e follia fino all’epilogo dove il padre soccombe mentre madre e figlio riescono a salvarsi.  

Si tratta di un romanzo di confine, dove seguendo apertamente la lezione di Edgar Allan Poe (lo stesso soggetto riprende il tema del luogo infestato da presenze inaugurato proprio da Poe nel racconto La caduta della casa degli Usher), gli stereotipi di genere sono tutti al servizio dell’introspezione psicologica. Nel senso che l’intento di King, nel raccontare questa storia terrificante, è quello di esplorare i labirinti interiori del protagonista Jack Torrance, la cui figura è dichiaratamente ispirata allo stesso autore. 

L’orrore, come nella più alta e nobile tradizione ottocentesca del racconto fantastico, qui corroborata dalla splendida penna “rock” di King, è così simbolo e specchio dell’inferno dell’anima, di quel “sottosuolo”, per dirla alla Dostoevskij, in cui l’uomo contemporaneo, scisso, inetto e irrisolto, affonda e soccombe senza possibilità di redenzione. Per questo le presenze malefiche dell’Overlook, che vengono da un fosco passato segnato da delitti e suicidi, risvegliano in Torrance i demoni del suo personale passato: l’alcolismo, l’indole violenta, l’incapacità di conservare un lavoro. Un passato da cui cerca in ogni modo di staccarsi e che invece lo bracca, la insegue e lo cattura proprio quando tutto tace, quando l’azione – che lo avrebbe portato avanti – cede il passo alla stasi – che viceversa lo spinge nel precipizio -, quando la quiete insostenibile dell’albergo deserto lo inchioda nel vortice dei propri fallimenti. 

Una lenta e inesorabile discesa nel baratro della follia che, a dire di King, Kubrick non avrebbe saputo cogliere. 

Sulle differenze tra film e romanzo, manco a dirlo, sono stati versati i classici fiumi d’inchiostro, anche se la maggior parte di esse – tanto per fare alcuni esempi: la stanza maledetta che nel romanzo è la 217 e nel film la 237, la leggendaria ascia con cui Torrance abbatte la porta nella scena più cult del film e che nel romanzo è invece una mazza, le terrificanti gemelle Grady e l’ascensore spargi sangue che nel libro sono del tutto assenti, il ruolo del cuoco Halloran che nel romanzo è decisivo per la fuga finale di madre e figlio mentre nel film viene ucciso da Torrance – ai fini dell’impianto narrativo nel suo complesso risultano dettagli. Ovvero, non alterano in modo sostanziale la storia. 

Anzi, a ben guardare, le due opere appaiono molto più vicine di quanto questa decennale diatriba ci abbia portato a pensare e a dare per scontato. Nel senso che anche Kubrick, al netto delle ovvie sfasature e trasgressioni che qualsiasi lavoro di riduzione di un’opera letteraria comporta – e impone -, costruisce un film al pari del romanzo del tutto debitore del linguaggio specifico del genere, talmente dentro ai topos dell’horror da crearne a sua volta. Ma soprattutto che, esattamente come l’opera di King, usa l’orrore come specchio e metafora dell’interiorità frantumata del protagonista. Ovvero che anche Kubrick ci propone un viaggio allucinato – e allucinante – nei meandri più oscuri e inquietanti dell’animo umano. 

Ed è proprio qui, e non nei dettagli dell’intreccio o delle singole scene, proprio dove sembrano più avvicinarsi, che le due opere mostrano la loro evidente diversità. Nel senso che di questo sottosuolo umano, malato e maledetto, ognuno dei due grandissimi autori ha una visione ben precisa che è una delle colonne portanti non tanto di Shining, quanto della loro poetica in generale, della loro opera omnia. 

In Stephen King c’è anzitutto l’imprescindibile motivo autobiografico. Jack Torrance non è il suo alter ego in senso stretto, ma rappresenta la sua ipotetica degenerazione. Alcol, violenza, miseria e disoccupazione sono gli stessi demoni con cui King ha dovuto combattere in un passato non troppo remoto al tempo della stesura del romanzo. Quando scrive Shining è già riuscito a sconfiggerli con la scrittura, ma l’incubo del baratro è ancora vivido. Torrance, che non a caso è un aspirante scrittore che non riesce a scrivere, rappresenta ciò che sarebbe potuto diventare King se la letteratura non fosse riuscito a salvarlo. È la parte peggiore di sé che viene esorcizzata imprigionandola in un romanzo. 

Al netto di tutto questo, ma anche in virtù di tutto questo, ciò che interessa più lo scrittore King, in termini di follia e di frantumazione dell’io, sono i nessi di causa effetto. Perciò il passato è così determinante, in Shining e nell’intera sua opera, vero e proprio marchio di fabbrica di uno stile fatto di continui passaggi di tempo tra passato e presente legati da una rete intricata e continua di rimandi e corrispondenze, di brevissimi e fulminanti flashback capaci di illuminare e giustificare anche la più turpe delle azioni. 

Kubrick, oltre a non avere implicazioni autobiografiche, è attratto non dall’origine del male, ma dal suo manifestarsi, dalla sua esplosione improvvisa e incontrollata. Per questo nel suo Shining il passato di Torrance non c’è, e pure il passato da cui arrivano le presenze dell’Overlook – l’ex custode Delbert Grady che anni addietro massacrò la sua famiglia – è un piano temporale simultneo al presente, che con esso si mescola in un gioco non di rimandi, ma di confusione dei piani che raggiunge il culmine nel celebre ed enigmatico finale, come se l’intero scorrere del tempo fosse un eterno ritorno in cui ogni personaggio, a partire dallo sventurato protagonista, esiste da sempre e per sempre. Lo stesso Torrance, nel film, ripete al figlio per ben tre volte di voler rimanere con lui nell’hotel per sempre.

Così, se l’Overlook in King è una sorta di spirale infernale, un baratro in cui Jack precipita, in Kubrick è una prigione. Nel romanzo il tempo scorre in avanti, e termina con un climax da manuale, l’esplosione della caldaia in cui Torrance perde la vita. Nel film il tempo è inevitabilmente ciclico e, come sempre in Kubrick, i personaggi sono costretti a ritornare incessantemente sui propri passi. Si pensi ad Alex di Arancia meccanica, che dopo la cura Ludovico si trova a ripercorrere a ritroso, stavolta subendoli, tutti i luoghi e tutti i fatti che lo avevano visto nella prima parte del film ineffabile e impunito carnefice. O a Joker di Full Metal Jacket, che in Vietnam è costretto a ripetere, in maniera grottesca e dovendone constatare l’inefficacia, quanto appreso nel campo di addestramento dei Marines. Qui Torrance, spinto dalle presenze dell’albergo, ripercorre le nefandezze di Delbert Grady, ma se in altri film malefici e benefici del ritornare sui propri passi tendono a compiersi e a risolversi in un unico personaggio (Alex subisce il viaggio a ritroso ma in quello stesso ritorno al passato trova la sua liberazione, Joker si trova in un inferno di morte e distruzione ma da quello stesso inferno ritrova l’amore per la vita), qui il discorso si sdoppia. Torrance ripercorrendo le orme di Grady trova la follia e quindi la morte, mentre il figlio Danny, che ritorna letteralmente sui suoi passi, ovvero ritorna sulle sue impronte lasciate sulla neve del labirinto, trova la salvezza proprio nel viaggio all’indietro.

 Un tempo ciclico e imprigionato che non poteva trovare simbolo e metafora migliore di quel terrificante labirinto che, ovviamente, resta tra i più indimenticabili marchi di fabbrica del film. Che altrettanto ovviamente non è presente nel libro, poiché il Jack Torrance letterario non è un Minotauro, e quindi non ha alcun labirinto da abitare, ma un Edipo fragile e deviato inseguito da un passato che ritorna per uccidergli il presente. E negargli ogni futuro.  

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