La scomparsa di Aldo Lado (Fiume, 5 dicembre 1934 – Roma, 25 novembre 2023) per chi ama il cosiddetto “cinema di qualità” rischia di passare inosservato.
In effetti i più ricorderanno un paio di thriller di taglio argentiano (La corta notte delle bambole di vetro, 1971; Chi l’ha vista morire?, 1972), la commedia con Gianni Morandi e Ottavia Piccolo La cosa buffa (1972), da Giuseppe Berto; e forse il fantascientifico pop L’umanoide (1979), col gigantesco Richard “Jaw” Kiel.
Ma un film di culto, per quanto derivativo, rimane indubbiamente L’ultimo treno della notte (1975), un thriller totalmente incentrato su stupro e vendetta. Più precisamente, del filone “Rape & Revenge”.
Per le vacanze di Natale, Lisa torna dai suoi genitori in Italia con la sua amica Margaret. Insieme prendono un treno dalla Germania, dove hanno studiato, per arrivare a destinazione il giorno successivo. Ma nel cuore della notte il treno viene fermato perché si sospetta un attentato. Non avendo voglia di aspettare, le ragazze decidono di prendere un altro treno, questa volta diretto. Ma altre persone faranno lo stessa scelta, tra cui due delinquenti in compagnia di una donna tanto bella quanto perversa. Quello che avrebbe dovuto essere un viaggio tranquillo in un comodo scompartimento si trasformerà in un incubo senza fine di torture e abusi sessuali…
Partendo dal successo de L’ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, 1972), di Wes Craven – a sua volta ispirato a La fontana della vergine (Jungfrukällan, 1960) di Ingmar Bergman – L’ultimo treno della notte (1975) di Lado riesce a creare un’atmosfera davvero cupa raggiungendo vette all’epoca inedite di sadismo. Pur seguendo alla lettera la sceneggiatura del film di Craven , il luogo dell’azione non è più lo stesso e anche i personaggi differiscono. Tutto si adatta perfettamente al suo tempo, cioè alla società italiana sconvolta dalle azioni terroristiche delle Brigate Rosse e che esprimeva un’immagine fortemente negativa della borghesia, riprodotta sullo schermo da attrici avvenenti e di grande classe.
Il regista propone una sua riflessione sulla natura umana e sulla sua dualità. Nella società spesso ci presentiamo bene, mentre nel privato ci comportiamo diversamente. Spesso immaginiamo che in una determinata situazione agiremmo in questo o in quel modo mentre in realtà non sappiamo quale sarà la nostra reale reazione. Quando la nostra vita va improvvisamente in frantumi, i nostri istinti primari prendono il sopravvento e così, anche l’uomo più pacifico può trasformarsi in un criminale senza scrupoli al pari degli aggressori dei propri cari. Così, il padre di Lisa (Laura D’Angelo), Giulio (Enrico Maria Salerno), si immagina al sicuro nella sua sontuosa dimora che, però, racchiude un grande vuoto emotivo da quando lui e sua moglie Laura (Marina Berti) si sono allontanati affettivamente. Crede di non aver bisogno di protezione poiché non gli potrà mai succedere nulla. Questo tipo di visione può essere molto pericoloso e cogliere impreparati dai pericoli che la vita può presentarci in qualunque momento.
Gli stessi delinquenti – Flavio Bucci e Gianfranco De Grassi, privi di nome – non sono immuni dal pericolo che la vicenda suggerisce provenga da un’altra persona, molto più manipolatrice e intelligente di loro (Macha Meril), una femme fatale dotata di una bellezza fredda che possiede un innegabile potere di seduzione che può sbaragliare ogni uomo. Ogni tentativo di ribellione da parte dei due delinquenti non produce risultati.
I due che riesce a manipolare all’origine non sono molto cattivi, vogliono solo infastidire il mondo e sopravvivere come meglio possono. Non esitano a derubare un Babbo Natale alcolizzato o a tagliare la pelliccia di una donna solo per il gusto di farlo. Rappresentano la marginalità, sia emotiva che economica, e sono quindi i candidati ideali per i giochi sadici che piacciono alla “signora pervertita”.
Contro di loro le due ragazzine non hanno davvero alcuna possibilità. Rappresentazione manichea dell’innocenza, sono solo prede il cui destino è cadere nelle grinfie di predatori improvvisati, a loro volta sotto il controllo di un essere più forte di loro. Si atteggiano da adulti, fumando o facendo ad alta voce commenti sui ragazzi. Questa facciata cela una grande ingenuità e soprattutto paura. Che si manifesterà nei giochi perversi che saranno costrette à sottomettersi, come se fosse solo un brutto momento da attraversare prima di riconquistare la propria libertà. In nessun momento, però, Lado giudica queste due giovani donne.
A differenza di L’ultima casa a sinistra, il film di Lado non contiene lo stesso realismo crudo, quasi documentaristico. Le luci sono molto elaborate, la tavolozza dei colori è ricca, le texture sembrano vellutate e questo aspetto “patinato” rischia di impedire che un’atmosfera malsana prenda davvero forma. Ma la bellezza plastica non interferisce con la storia, anzi, durante le insopportabili scene di aggressione, è estremamente funzionale. Lo scompartimento è normalmente illuminato quando all’improvviso la “donna perversa” decide che è ora di mettersi al lavoro. Spegne una candela e subito lo spazio angusto viene inondato da una luce blu inaspettata ed estremamente efficace. Da un’atmosfera quasi ovattata si passa improvvisamente all’oppressione più totale in un mondo irreale, al terrore ambientale sottolineato dalla melodia inebriante prodotta dall’armonica e che torna costantemente per ricordarci la minaccia onnipresente.
Il montaggio del film presenta alcuni stacchi molto intelligenti, soprattutto quando si prepara la violenza sessuale sulle giovani donne. La loro famiglia festeggia la vigilia di Natale in compagnia degli ospiti ed è qui che il discorso si sposta sulla violenza, sulle sue cause e ramificazioni in cui Giulio fa il suo discorso pretenzioso e sprezzante. Dopo cena ballano nell’ampio soggiorno mentre la figlia viene violentata. Sul treno questi orrori vengono controllati da un voyeur che presto parteciperà in prima persona mentre il tutto viene spiato dall’esterno attraverso le porte-finestre. E mentre l’ubriachezza prende il sopravvento, le atrocità sul treno giungono al culmine in una scena di stupro con accoltellamento che si richiama alla scena dell’omicidio nel film di Craven. I due sbandati tentano di invertire i ruoli e incolpare la “signora pervertita” ma non ci riusciranno. E mentre Lado insiste lentamente sulla tortura fisica e psicologica, emerge insinuante questo desiderio deviato di sedurre le vittime attraverso la sottomissione tra gli aggressori, in particolare nel personaggio di Macha Meril (anche lei senza nome, “la signora del treno). C’è un vero senso di sollievo quando si ferma.
Nel film di Craven , il leader del gruppo era il famoso Krug, vizioso e carismatico in egual misura. Al contrario, Lado decide di collocare una donna nello stesso ruolo, una scelta coraggiosa (anche se oggi improponibile perché politically incorrect) e tanto più spaventosa in quanto una presenza femminile è più spesso sinonimo di dolcezza e protezione materna piuttosto che rappresentazione di una dominatrice ossessionata dal sesso e capace di commettere l’inimmaginabile su due ragazze che avrebbero potuto essere sue figlie. Nell’Italia dell’epoca la bella borghese aveva connotazioni molto negative e il regista sfrutta abilmente questa antipatia soprattutto alla fine, durante la terribile vendetta del padre sui persecutori della figlia. La madre di Lisa crolla tra le braccia della “signora perversa” che la consola come può mentre il marito lascia che ciò accada. Entrambi sono incapaci anche solo di immaginare che una donna della loro stessa condizione sociale possa essere coinvolta in tante atrocità, tanto meno che possa esserne la mandante. La scena diventa quasi patetica perché conosciamo perfettamente le convinzioni sdegnose dei genitori riguardo al mondo “sottostante” e si è capito che la violenza inflitta alla figlia servirà loro da lezione. Un prezzo, però, disumano… Da notare anche l’atteggiamento totalmente passivo della madre che, a differenza del film di Craven, non si piega alla seduzione sessuale per vendicarsi degli aggressori maschili della figlia. Un atteggiamento del tutto irrealistico derivante da un discorso assolutamente inaccettabile che, se ben gestito drammaturgicamente, può diventare comprensibile nel suo contesto.
Nelle ultime immagini Lado gioca ancora una volta sulla dualità dell’essere umano, su ciò che si nasconde dietro la maschera. Qui questa maschera è rappresentata dal velo che Méril indossa sul cappello e che all’inizio le copre il volto. Quando decide di sollevarlo, cambia, diventa seducente e disarmante mentre tenta un approccio sul treno con un ricco uomo d’affari che riconosce da una rivista. Da questo momento in poi non indosserà più nemmeno il cappello e solo alla fine, in un momento di suprema ironia, si coprirà il volto con il velo e ridiventerà la persona che tutti immaginano. Ciò fa pensare ad un ritorno al punto di partenza per questa “signora pervertita” mentre il padre se la caverà sicuramente grazie alle sue numerose conoscenze influenti.
L’ultimo treno della notte non è una pallida copia del film di Craven. Lado è un abile regista che sa sfruttare le sue ambientazioni e giocare con le luci senza dimenticare di includere dettagli sui suoi protagonisti (il balordo che si fa una dose di eroina, le foto pornografiche nella borsa della Méril… ). Le riprese esplicitamente sanguinose sono quasi assenti in un film che si concentra principalmente sull’horror psicologico (è presente la ripresa di un’operazione di appendicite per presentare Giulio Stradi che è un chirurgo; e il vile risultato dello stupro con un coltello prima che si consumi l’attesa vendetta).
La colonna sonora è composta da Ennio Morricone, anche se la notevole musica dei titoli è eseguita da Demis Roussos. Le melodie sono malinconiche e molto marcate, soprattutto quelle impercettibili note suonate sull’armonica che prefigurano la violenza.
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