La notte infernale di un giovane informatico, impiegato di banca e grande ammiratore di Henry Miller, nel quartiere bohémien di Soho, a New York…
Nel 1982, il regista Martin Scorsese girò Re per una notte/The King of Comedy per l’astronomica cifra di 20 milioni di dollari, sperando di conquistare il pubblico grazie all’associazione di Robert De Niro e Jerry Lewis. Il film fu un maledetto flop che non incassa nemmeno 2,5 milioni di dollari al box-office americano. Il disastro finanziario mette in ginocchio Scorsese, che sprofonda in una terribile depressione, dovendo anche lottare contro numerose dipendenze accumulate negli anni (un felice cocktail di droga e alcol).
In fondo al buco, Martin Scorsese prese seriamente in considerazione l’idea di lasciare il cinema e non girò per tre anni. Intorno al 1985, il regista cercò di mettere insieme un progetto che gli stava a cuore, ovvero L’ultima tentazione di Cristo. Non riuscendo a trovare i finanziamenti necessari, accettò la proposta di Amy Robinson – interprete di Mean Streets in seguito diventata produttrice, di girare questo After Hours/Fuori orario basato su una sceneggiatura originale di Joseph Minion, uno studente del dipartimento di cinema della Columbia University. Oltre allo status di semplice regista (è la prima volta che non è l’autore della sceneggiatura), Scorsese vede in essa l’opportunità di tornare al cinema indipendente e a basso budget (un quinto del budget del film con Jerry Lewis), con meno stress, e l’aggiunta del divertimento di emulare lo stile di Alfred Hitchcock ed evocare la sua New York da un’altra angolazione rispetto a quella delle bande e dei teppisti.
Una commedia folle che attinge alle fonti di Kafka e Hitchcock, come detto. E in effetti, After Hours è un vero e proprio modello a orologeria che conduce l’eroe nel cuore di un intrigo kafkiano. Mentre il lungometraggio si presenta come una commedia folle, Scorsese filma il tutto come se fosse un thriller paranoico. Troviamo in particolare il famoso tema hitchcockiano dell’individuo accusato ingiustamente – qui si tratta di furti con scasso nel quartiere di Soho.
Motivato dal suo incontro notturno con un’eccentrica giovane donna (l’elegante Rosanna Arquette), il giovane impiegato Paul Hackett (l’azzeccatissimo Griffin Dunne) si ritrova imbarcato in incredibili avventure che lo portano sempre più lontano da casa. La sceneggiatura riprende di fatto la struttura dell’opera letteraria di Franz Kafka spingendo il personaggio principale sempre più lontano dal suo obiettivo iniziale. Il protagonista perde accidentalmente i suoi soldi e si ritrova di colpo in balia delle strane persone che incontra.
Sempre più deliranti man mano che la notte avanza, queste disavventure descrivono una società newyorkese da nottambuli che Scorsese conosce alla perfezione. Certo, il film è molto spesso divertente, ma può essere visto oggi anche come un documentario su una città complessa come la New York degli anni ’80. Dietro le situazioni divertenti, emerge gradualmente il ritratto di un mondo angosciante, pieno di violenza e popolato da abitanti uno più strano dell’altro.
Scorsese ovviamente si prende gioco di questi yuppies apparsi nel cuore degli anni ’80, ma ritrae anche l’underground artistico che popola quartieri come Soho. Menziona perfino la creazione di quelle milizie di autodifesa che intendono farsi giustizia da sole al posto delle forze di polizia corrotte. Si unisce così all’osservazione fatta dai cineasti più marcati di destra, ma intende dimostrare l’assurdità di questo assunto.
Tuttavia, After Hours non avrebbe raggiunto lo stesso risultato senza l’assoluta brillantezza della sua produzione. Scorsese sembra semplicemente divertirsi in questo film senza alcun reale vincolo. La sua macchina da presa è deliziosamente mobile e abbraccia personaggi e ambientazioni nello stesso movimento. Questo stile, tuttavia, non è appariscente e risponde alla logica da incubo di un film che si svolge come in un sogno.
Vera e propria resurrezione artistica e commerciale di Martin Scorsese, After Hours ha avuto sicuramente un piccolo successo negli Stati Uniti (venti milioni di dollari), ma il lungometraggio ha lasciato il segno in occasione della sua presentazione al Festival di Cannes nel 1986, coronato dal premio alla regia.
Il film aprirà le porte a Il colore dei soldi (1986), sequel del mirabile Lo spaccone (1961), di Robert Rossen, con nuovamente Paul Newman e un giovane Tom Cruise. Il film incasserà più di 52,2 milioni di dollari solo negli Stati Uniti, quanto basta per risollevare davvero la carriera di un regista che aveva toccato il fondo appena due anni prima.
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